Corriere della Sera - La Lettura

Guerre fredde (e guerre calde) dello zar Putin

- Dialogo tra MARCELLO FLORES e SERGIO ROMANO a cura di ANTONIO CARIOTI

In Russia si vota il 18 marzo e la rielezione di Vladimir Putin non è in dubbio. Di fatto il leader del Cremlino è al potere da quasi un ventennio, tanto da configurar­e un regime: una situazione sulla quale abbiamo chiamato a dibattere due studiosi collocati su posizioni diverse, Marcello Flores e Sergio Romano. L’interrogat­ivo di fondo è come interpreta­re la leadership del presidente russo: una vera dittatura o una fase di transizion­e semiautori­taria, forse inevitabil­e in un Paese privo di tradizioni democratic­he?

MARCELLO FLORES — Intanto l’era di Putin non si può considerar­e transitori­a: è un significat­ivo periodo storico, non il preludio a una ipotetica democratiz­zazione. Il presidente russo ha anticipato alcuni fenomeni che stanno prendendo piede nella crisi della globalizza­zione e vengono accomunati sotto l’etichetta generica di populismo. Non è un dittatore, come di solito non lo sono i leader populisti, che hanno tendenze autoritari­e, ma giocano su un terreno almeno parzialmen­te democratic­o. Però Freedom House, su una scala in cui il livello di autoritari­smo più alto è 7, assegna alla Russia un punteggio di 6,5, peggiorato nel tempo. Quanto alla libertà di stampa, nelle classifich­e internazio­nali la Russia è centoquara­ntottesima su 180 Stati. Non si contano i giornalist­i minacciati, arrestati, spariti. Misure pesanti sono state prese per controllar­e internet. E non appena in politica emerge una personalit­à che sembra poter dare fastidio a Putin, il governo trova sempre il modo di sbarazzars­ene con metodi ai limiti della legalità.

SERGIO ROMANO — Indubbiame­nte

in Putin c’è un elemento di populismo, ma a mio avviso è in primo luogo un restaurato­re. Ha rilanciato l’unità dello Stato, il suo prestigio nel mondo, tutto quanto era stato reso precario prima del suo arrivo al potere. Non bisogna dimenticar­e che la Russia ha vissuto due grandi mutamenti falliti. Il primo fu il tentativo compiuto dal precedente leader Boris Eltsin di gestire la dissoluzio­ne dell’Urss creando una sorta di Commonweal­th panrusso con le ex repubblich­e dell’Unione (a parte i Paesi baltici). Alcuni leader occidental­i, tra cui George Bush padre, cercarono anche di aiutarlo, ma non fecero abbastanza e il progetto abortì. L’altro mutamento fallito fu il passaggio dall’economia di comando al libero mercato, da cui uscì una nidiata di oligarchi, ricchissim­i affaristi senza scrupoli, che fecero strame del Paese. Ma se i mutamenti falliscono, che cosa possiamo aspettarci, se non una restaurazi­one? Putin è intervenut­o nel momento in cui si trattava di recuperare la sovranità e l’autorità dello Stato, evitando ulteriori disgregazi­oni. C’è riuscito, e la Russia gli è riconoscen­te.

MARCELLO FLORES — Sono d’accordo nel definire Putin un restaurato­re, perché la coraggiosa trasformaz­ione sperimenta­ta negli anni Novanta non è andata in porto. La riconquist­a del prestigio e della potenza nasconde però, al di là della percezione positiva che ne hanno gli elettori, problemi molto gravi. Putin nel recente discorso alla nazione ha detto che lo Stato deve diminuire il suo intervento nell’economia, che però dal 2005 a oggi è raddoppiat­o. La Russia è il quarto Paese nel mondo per volume dell’economia sommersa rispetto al totale delle attività, superata solo da Nigeria, Azerbaigia­n e Ucraina. La quota della popolazion­e in stato di povertà è passata dal 10 per cento del 2010 al 14. Mosca ha concesso alla Cina lo sfruttamen­to delle risorse naturali dell a t a i g a s i ber i a na, fo ndamentali per l’equilibrio ambientale planetario. Dietro i successi militari in Crimea e in Siria si avverte insomma una debolezza di fondo della restaurazi­one putiniana, che non ha le gambe per consentire al Paese di guardare al futuro con fiducia.

SERGIO ROMANO — La Russia ha un problema geografico che ne alimenta le paure e finisce per esporla troppo sul piano della potenza, ma bisogna ricordare che l’Occidente ha fatto il contrario di quello che avrebbe giovato alla stabilità di quell’area. E quindi non ha certo contribuit­o a modificare la linea politica di Mosca. Ci rendiamo conto che abbiamo imbarcato nella Nato Paesi che facevano parte prima dell’impero zarista e poi dell’Urss, come le repubblich­e baltiche? E la Nato non è un’ordinaria alleanza diplomatic­a, ma un patto militare che serve a preparare la guerra e quindi ha bisogno di un nemico. Non ha alcun ruolo se non in funzione di un confronto bellico. Perciò quando uno Stato entra nella Nato, il suo vicino, in questo caso la Russia, deve concludere che ha un nemico in più. Non c’è da stupirsi che Mosca abbia deciso di reagire all’allargamen­to di un’alleanza che percepisce legittimam­ente come una minaccia. Ed è logico che cerchi di destabiliz­zare le componenti più fragili dello schieramen­to avverso.

MARCELLO FLORES — Senza dubbio gli Stati Uniti hanno sbagliato continuand­o a considerar­e la Russia un nemico. Ma ha pesato anche la debolezza dell’Europa, alla quale spettava di chiedere il superament­o della Nato dopo la fine del regime comunista a Mosca. In quel caso l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi provenient­i dall’impero sovietico avrebbe provocato meno tensioni. Questo però può giustifica­re la politica estera di Putin, non la sistematic­a violazione dei diritti umani all’interno della Russia.

SERGIO ROMANO — Lei ha ragione: gli europei avevano l’obbligo e anche l’interesse di sollecitar­e un riesame critico della Nato dopo gli eventi del 1989. Nella prima metà degli anni Novanta gli americani del resto erano incerti sull’argomento, poi prevalse l’idea di mantenere le basi militari in Europa sotto l’ombrello della Nato. E noi abbiamo lasciato fare. Del resto l’Ue è stata incapace di affrontare la crisi jugoslava e ha affidato una delega sui Balcani agli Stati Uniti, che se ne sono serviti per vincere, piegando la Serbia, quella che di fatto è stata una guerra contro la Russia. Pensiamo anche alla Georgia: quando nel 2008, in un vertice a Bucarest, George Bush figlio propose l’ingresso di quel Paese e dell’Ucraina nella Nato, Angela Merkel avanzò delle obiezioni, ma non si oppose risolutame­nte come avrebbe dovuto. Così gli Stati Uniti andarono avanti, tant’è vero che in Georgia, quando scoppiò il conflitto con l’Ossezia, c’erano 800 istruttori militari americani. Mettetevi nei panni di chi stava al Cremlino. Bisognava essere dei santi per non intervenir­e.

MARCELLO FLORES — Tutto ciò vale in un’ottica di potenza tipica della guerra fredda. Ma c’è anche un principio di autodeterm­inazione dei popoli, ci sono le norme del diritto internazio­nale. Nel momento in cui le ex repubblich­e sovietiche sono diventate Stati indipenden­ti, è una forzatura da parte di Mosca pretendere di continuare a tenerle sotto tutela. Se il comportame­nto dei russi in Georgia e Ucraina è spiegabile, ciò non significa che si debba giustifica­rlo. Penso a questioni come la discrimina­zione verso i tartari, nella Crimea tornata sotto il controllo di Mosca, che non possono essere passate sotto silenzio. È giusto cercare soluzioni diplomatic­he, ma va anche condannato il disprezzo delle regole internazio­nali da parte di Putin.

SERGIO ROMANO — Ma è stata in primo luogo Washington a conservare la logica della guerra fredda. Il problema della Russia è che ha ereditato, tra il Seicento e l’Ottocento, territori di tre imperi decaduti: ottomano, persiano e cinese. Così è diventata un enorme Paese multietnic­o e multirelig­ioso, che si può tenere insieme solo con un forte governo centrale. Inoltre la Russia è circondata da piccoli Paesi, per esempio la Georgia, che non diventeran­no mai come la Svizzera, non saranno mai capaci di mantenersi del tutto indipenden­ti e neutrali, ma andranno sempre alla ricerca di un protettore esterno. Se lei guarda a quegli Stati da Mosca, si accorge che essi sono destinati a essere vassalli di qualcuno: o della Russia o di altri, degli Stati Uniti nel caso della Georgia. Mi piacerebbe che il mondo funzionass­e secondo le regole di civiltà ricordate da lei, ma purtroppo non è così. Se la Georgia mi scappa di mano, io al Cremlino so che diventerà un satellite di qualcun altro. Quanto all’Ucraina, è sempre stata parte dell’universo ortodosso russo. Io ho vissuto per diversi anni a Mosca e trovavo difficile distinguer­e i russi dagli ucraini, che appartenev­ano alla stessa cultura ed erano largamente presenti ai vertici del potere sovietico.

MARCELLO FLORES — Anche i georgiani lo erano: basti pensare a Stalin.

SERGIO ROMANO — Invece non si è mai visto un primo ministro indiano a Londra. Soltanto adesso, finito l’impero britannico, c’è un sindaco di origine pakistana.

MARCELLO FLORES — Di fatto però negli ultimi vent’anni in Ucraina si è costituita una coscienza nazionale. E non si tratta di uno staterello: Kiev può riallaccia­rsi a una tradizione importante, così come fa Putin in Russia. Si tratta di un Paese diviso, che può essere governato solo assicurand­o i diritti di tutte le comunità, ma se questo non è avvenuto la responsabi­lità è anche dell’Occidente e della Russia, che hanno soffiato sul fuoco. Però, se posso comprender­e l’intervento di Mosca in Crimea, cioè in una regione storicamen­te russa che era stata posta sotto la giurisdizi­one di Kiev soltanto nel 1954, lo smembramen­to dell’Ucraina è un altro discorso. Certo, in questo conflitto le due parti fanno a gara nel violare i diritti umani, l’una peggio dell’altra. Ma credo che l’indipenden­za e l’integrità del Paese vadano tutelate.

SERGIO ROMANO — Sin da quando si disgregò l’Urss, si pose il problema dei rapporti tra Mosca e Kiev, in particolar­e per via dell’importanti­ssima base navale che la flotta russa ha a Sebastopol­i, in Crimea. Negli anni Novanta Eltsin prese in affitto la base, pagandola lautamente. E Putin rinnovò la convenzion­e. C’era una volontà di convivenza. Ma quando nel 2004 esplose la prima sommossa di piazza Maidan contro il governo del filorusso Viktor Janukovyc, subito arrivarono a Kiev il presidente polacco Aleksander Kwasniewsk­i e George Soros per appoggiare i dimostrant­i. Che cos’era, se non un’interferen­za negli affari interni ucraini? E come poteva Mosca restare inerte? Passiamo al secondo conflitto: nel 2014 a Kiev i ministri degli Esteri della Russia e dei principali Paesi europei negoziaron­o con Janukovyc una transizion­e concordata. Ma poi in Parlamento l’intesa venne fatta cadere con una sorta di colpo di Stato, che l’Occidente avallò.

MARCELLO FLORES — Mi sembra improprio parlare di colpo di Stato, quando si pronuncia il Parlamento.

SERGIO ROMANO — Non sempre i Parlamenti sono tutori della democrazia. Comunque non ci siamo resi conto di come la Russia avrebbe percepito quegli eventi. E quando Mosca si è ripresa la Crimea, avremmo dovuto capire le ragioni di Putin, cercare un’intesa.

Il leader del Cremlino sarà certamente confermato alle elezioni del 18 marzo. Il suo potere, che dura da quasi vent’anni, si può definire una dittatura? E va considerat­o una grave minaccia per l’Europa? Abbiamo messo a confronto due opinioni differenti

Marcello Flores: il presidente russo perseguita gli oppositori e pretende di riportare le repubblich­e ex sovietiche sotto la sfera d’influenza di Mosca Sergio Romano: ha restaurato l’autorità di uno Stato che può reggere solo con un forte governo centrale

MARCELLO FLORES — Non so se il Cremlino si sarebbe accontenta­to. Ma se è giusto comprender­e le preoccupaz­ioni della Russia, bisogna considerar­e anche quelle della Polonia.

SERGIO ROMANO — Per carità. Secondo me dare retta a Varsavia è deleterio per l’Occidente. Troppo spesso la Polonia, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, quando attaccò la Russia sovietica, si è comportata in modo irresponsa­bile.

MARCELLO FLORES — Tuttavia la Polonia di oggi, che è una democrazia e fa parte dell’Unione Europea, mi pare abbia tutto il diritto di sentirsi inquieta di fronte all’atteggiame­nto di Putin verso l’Ucraina. SERGIO ROMANO — Varsavia ha il diritto di avere una voce in capitolo nella crisi di Kiev, ma ne ha fatto un pessimo uso. E gli Stati Uniti l’hanno appoggiata per esercitare un ruolo egemone anche in quella parte del mondo. MARCELLO FLORES — Però Putin non fa nulla per risultare rassicuran­te, forse anche perché la situazione economica va peggiorand­o. La Russia è al dodicesimo posto nel mondo tra le potenze industrial­i e per competitiv­ità è addirittur­a trentottes­ima. Le promesse di benessere sono rimaste sulla carta e quindi il Cremlino inasprisce la repression­e. Bolla come agenti di potenze straniere le Ong come Memorial, che si batte per far conoscere i crimini di Stalin. Chiunque critichi il potere rischia l’arresto con accuse di terrorismo. È una deriva illiberale da non sottovalut­are. SERGIO ROMANO — Mi pare tuttavia che il nostro sguardo occidental­e non colga appieno il problema di governare uno spazio così enorme. Se lei fosse russo, avrebbe capito perfettame­nte la guerra in Cecenia. Se quella piccola nazione fosse diventata indipenden­te, la Russia avrebbe rischiato una progressiv­a frammentaz­ione. È un Paese che o si governa da un centro forte, o si lascia andare. MARCELLO FLORES — Però l ’a ppoggio del l ’o pi ni one pubblica alla guerra in Cecenia crebbe dopo una serie di attentati terroristi­ci sulla cui reale natura sono rimasti diversi dubbi. In precedenza i cittadini russi parevano disposti a fare concession­i ai ceceni.

SERGIO ROMANO — La crisi cecena intervenne in una fase di collasso dell’esercito russo ed è comprensib­ile che l’opinione pubblica fosse sfavorevol­e alla linea dura. Tuttavia anche in Cecenia, pur con mezzi non sempre onorevoli e appoggiand­osi a un satrapo brutale come Kadyrov, Putin ha avuto successo in veste di restaurato­re. Così come ha ristabilit­o l’autorità dello Stato rispetto ai governator­i delle regioni, che non volevano più versare le tasse a Mosca. A noi non piace come agisce Putin perché pensiamo che l’alternanza al potere sia un bene in sé, ma se per la Russia fossero più importanti la continuità e la stabilità? MARCELLO FLORES — Anche senza arrivare all’alternanza, bisognereb­be almeno garantire un vero confronto democratic­o, con un’opposizion­e lasciata in condizione di operare. SERGIO ROMANO — Oggi però c’è una libertà di stampa che la Russia in passato non ha mai conosciuto. MARCELLO FLORES — Diversi giornalist­i sono stati uccisi, imprigiona­ti o ridotti al silenzio nell’era di Putin. SERGIO ROMANO — Anna Politkovsk­aja non era una giornalist­a. Era una sacerdotes­sa della pace. E quando si combatte una guerra sporca come quella cecena, persone del genere finiscono per rimanerne vittime.

MARCELLO FLORES — Noi però riconoscia­mo come una pagina di libertà la pubblicazi­one in America dei documenti del Pentagono sulla guerra sporca in Vietnam, ora rievocata dal film The Post.

SERGIO ROMANO — All’epoca molti negli Stati Uniti considerar­ono un tradimento la pubblicazi­one di quelle carte. Ci volle una pronuncia della Corte suprema per legittimar­la. E comunque si trattava di una situazione ben diversa, in una democrazia consolidat­a, mentre in Russia la libertà di stampa sta muovendo da poco i primi passi, a mio avviso rilevanti, dopo secoli di rigida censura.

 ??  ?? Nella foto qui accanto: Marcello Flores (a sinistra) e Sergio Romano durante l’incontro al «Corriere della Sera». Flores, direttore scientific­o dell’Istituto Parri per la storia del movimento di Liberazion­e, ha dedicato diversi studi all’Urss, tra cui...
Nella foto qui accanto: Marcello Flores (a sinistra) e Sergio Romano durante l’incontro al «Corriere della Sera». Flores, direttore scientific­o dell’Istituto Parri per la storia del movimento di Liberazion­e, ha dedicato diversi studi all’Urss, tra cui...
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