Corriere della Sera - La Lettura
Nell’umano gli indizi del divino
«Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (dal Salmo 8). Forse la nostra vita non è altro che il tentativo di dare una risposta a questa domanda che, come spesso accade, mantiene la sua sensatezza soltanto se non ha la pretesa di rinchiudersi in una definizione. Per sua natura l’essere umano è un essere aperto al riconoscimento necessario e autentico di altro-da-sé; cosciente di ricevere la propria vita da altri, fa esperienza, nel corso della sua esistenza, del fatto che questa vita è mantenuta in vita da altri, nella speranza che da un Altro venga accolta e raccolta. La nostra esistenza scorre nella tensione tra spazi conquistati e spazi offerti alla presenza dell’altro e in questo orizzonte, a volte complesso, di relazioni umane si aprono scorci di trascendenza, come un invito discreto a cercare nella nostra umanità frammenti del divino.
Nei racconti sapienziali dell’origine dell’uo- mo e della creazione ci vengono offerte possibili aperture. La prima è riconoscibile dall’ingresso della luce. Dio disse: «Sia la luce!» ( Genesi 1,3). Molti sono i modi in cui la «luce» può entrare nelle nostre vite, vincendo le naturali resistenze dell’assuefazione alla semioscurità. Un chiarore che spesso ha i contorni dell’inquietudine, della ricerca, del bisogno di vederci chiaro… ma anche dell’intuizione. Una luce diversa che ci permette di riscoprire il valore e la bellezza delle persone che ci stanno accanto e di comprendere in maniera nuova ciò che appartiene alla quotidianità. Una luce che riempie il nostro vivere e ci consente di scoprire che la pienezza della vita non è data dal numero di cose che si fanno, ma dalla intensità e gratuità con cui si vivono.
La seconda apertura ha come effetto la qualità delle nostre relazioni: la nostra capacità di far festa. «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo… siano segni per le feste» ( Genesi 1,14). La festa si programma, si prepara, ma sappiamo bene che la sua riuscita è nel viverla. La festa si affida al rischio, affidandosi al desiderio dell’altro di far festa con noi. Condividendo la gioia in uno spazio gratuito di libertà, la festa libera la nostra umanità nella capacità di gioire per la gioia di un altro, per imparare, al tempo opportuno, la compassione del pianto per il dolore di un altro.
E infine, la terza apertura alla trascendenza è il riposo. «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro» ( Genesi 2,2). Siamo in presenza di un giorno inutile, un giorno nel quale ci impediamo di ricondurre le nostre esistenze solo al fare e al produrre. Il riposo irrompe per ricordarci che l’esercizio della potenza di Dio si manifesta nella limitazione della sua stessa potenza e che a volte è necessaria una grande forza per fermarci e non lasciarci trascinare dall’accelerazione che imprimiamo alle nostre vite.
Luce, festa, riposo… per continuare a credere che profondamente l’uomo è anche questo.