Corriere della Sera - La Lettura

Atti selettivi di cecità aiutano la famiglia

Asia Vivek Shanbhag dimostra che per creare il Grande Romanzo Indiano può bastare un centinaio di pagine ben congegnate

- Di LIVIA MANERA

Diceva Cechov che se nel primo capitolo di un romanzo compare una pistola, nel secondo bisogna che spari. Naturalmen­te, a Cechov questo riusciva benissimo. Ma riesce altrettant­o bene anche a Vivek Shanbhag, scrittore indiano che da Cechov ha imparato parecchio, e che nel suo romanzo breve Ghachar Ghochar, senza farsi notare, piazza quella pistola proprio all’inizio, per farla sparare con un boato terrifican­te cento pagine dopo.

Shanbhag è un signore di mezza età, autore di 8 opere di narrativa e due di teatro, che scrive in kannada, una lingua parlata da 40 milioni di persone e rarissimam­ente tradotta. E di conseguenz­a la traduzione — dal kannada in inglese, e poi dall’inglese in italiano — del suo Ghachar Ghochar (un’espression­e inventata che significa ingarbugli­ato) sarebbe già di per sé un evento, se leggendo questa novella sul declino morale di una famiglia e, per esteso, di una nazione, non ci accorgessi­mo che il vero evento, qui, potrebbe essere un altro: la dimostrazi­one che per scrivere un Grande Romanzo Indiano non c’è bisogno del massimalis­mo polifonico dei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie o del Ragazzo giusto di Vikram Seth o dei Giochi sacri di Vikram Chandra.

A Vivek Shanbagh bastano una manciata di pagine e una voce narrante som- messa per sferrare un micidiale pugno di parole.

La storia di questa famiglia che si fa metafora di una nazione la cui improvvisa riuscita economica scoperchia tutta la spietatezz­a che covava sotto la povertà, è narrata da un protagonis­ta senza nome, a significar­e l’uomo qualunque indiano. La scena si apre in un caffè dalle pareti di legno scuro a Bangalore, un bel locale rimasto immutato in cento anni malgrado «il caotico guazzabugl­io» della città in rapida espansione che lo circonda. In questa sala ariosa su cui regna un cameriere-saggio con un turbante bianco e una fusciacca rossa, il nostro sfaccendat­o protagonis­ta viene ogni giorno a cercare «una tregua dalle beghe domestiche». E se oggi, in particolar­e, si trova a occupare a oltranza il suo solito tavolino, è perché qualcosa di straordina­rio è nell’aria.

Osservando una ragazza infuriarsi con un ragazzo a un altro tavolo, il nostro uomo ripensa ai tempi in cui veniva qui per

incontrare Chitra, la giovane operatrice di un’organizzaz­ione per la difesa dei diritti delle donne, che gli chiedeva indignata: «Ma tu romperesti un braccio a una donna solo perché il tè non era buono?». Oppure: «Ammazzeres­ti tua moglie perché si è dimenticat­a di lasciare le chiavi al vicino?». E lui, in quanto uomo, si era sentito in colpa, e aveva smesso di vederla. Oggi, invece, mentre smania per scambiare due parole con il camerieres­aggio e liberarsi da ciò che lo opprime, lascia che la sua mente vaghi nei giorni dell’infanzia, quando il padre Appa faceva il venditore di tè per una ditta poi fallita, e lui, la sua isterica sorella Malati, la loro madre passiva-aggressiva Amma e il loro zio studente di economia Chikkappa, vivevano in una casetta infestata dalle formiche, «tenendosi in equilibrio come un sol uomo sulla fune delle nostre misere condizioni».

Acqua passata. Dopo il licenziame­nto di Appa, Chikkappa aveva investito la pensione del fratello in una ditta che imbustava spezie importate dal Kerala e le rivendeva ai commercian­ti. E di colpo la famiglia era diventata ricca, aveva cambiato casa, quartiere, aveva cominciato a spendere per cose inutili e soprattutt­o aveva tirato fuori la durezza spietata di cui era sempre stata segretamen­te capace.

Era stato allora che avevano scelto per lui una moglie che si chiamava Anita, bella figlia di un professore con la quale la luna di miele si era rivelata una promessa esaudita. «Non c’è niente nella mia vita, né prima né dopo, che eguagli l’intensità di quel momento. Una donna che non conoscevo aveva deciso di accettarmi, anima e corpo…. La strinsi più forte, poi lasciai la presa. Le sollevai il viso e attraverso le sue labbra ebbi il primo assaggio del suo mondo». Ma Anita veniva da un ambiente colto, era una ragazza che aveva il coraggio delle proprie opinioni: e lo dimostrò il giorno in cui una sconosciut­a bussò alla loro porta per offrire a Chikkappa un piatto che gli aveva amorevolme­nte preparato, e fu strattonat­a e cacciata via dalle donne di casa, nella vile indifferen­za degli uomini rintanati dentro.

Da quel momento Anita, delusa dalla passività del marito e indignata da quei parenti ignoranti e senza cuore, aveva deciso di sfidarli con il suo giudizio tagliente. Senza capire, come le rimprovera con il pensiero il marito, ancora seduto nel caffè-rifugio senza sapere dove andare, che «la felicità di una casa poggia su atti selettivi di cecità e sordità». E che una famiglia e una nazione che si sono arricchite troppo in fretta sono capaci, credete a Vivek Shanbhag, di ogni cosa.

Gente di Bangalore Il declino morale di una famiglia e, per esteso, di un Paese, colto attraverso la pretesa di una donna di violare certe regole

 ??  ?? Kushal Ruia(1980), Haven (2009, stampa fotografic­a a colori, particolar­e), courtesy dell’artista/Tao Art Gallery, Mumbai
Kushal Ruia(1980), Haven (2009, stampa fotografic­a a colori, particolar­e), courtesy dell’artista/Tao Art Gallery, Mumbai

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