Corriere della Sera - La Lettura
Abito dentro un uomo che porta il mio nome
Ilibri di Fernando Aramburu fanno venire voglia di agitarsi. Senza però interrompere a lungo, imitando la sua posizione preferita, «l’esercizio delizioso della lettura» praticato in ore di «serenità notturna» con la lampada a fianco, un quaderno per le annotazioni a portata di mano. Se Patria spingeva infatti il lettore a unirsi agli applausi rivolti nel romanzo all’alter ego dell’autore, che spiegava in pubblico come avesse cercato di mostrare «la sofferenza inflitta da alcuni uomini ad altri», Autorretrato sin mí obbliga invece a camminare per la stanza, pilotati in modo precario dallo stupore, per seminare a voce alta le parole, tentando finalmente di violare quella che un maestro a lui caro, Albert Camus, chiamava «la grande indifferenza del mondo».
Qualcuno ascolterà chi declama in solitudine? È possibile. Le parole servono «a nominare cose che ignorano di essere nominate» e la loro forza, quindi, può prendere una sorta di consistenza fisica. In Vuelta a casa, uno dei sessantuno testi di questo volume che sono stati pensati — come ha detto al «Diario Vasco» — «sugli aerei, nelle sale di attesa degli aeroporti, nelle stanze di albergo, sempre in luoghi inabituali che invitavano al monologo silenzioso», Aramburu racconta di una visita nella «penombra familiare» dopo la morte del padre, operaio in una tipografia di San Sebastián. Alla fine pronuncia il suo nome, come se lo chiamasse da lontano. «Uscendo dall’appartamento, rassegnato al tuo silenzio, noto — aggiunge — che l’aria mi dà una pacca sulle spalle come quelle che tu mi davi».
L’aria. La stessa dove si materializzano le sue frasi che ripetiamo a voce alta. Vediamolo, questo autoritratto, che arriva un po’ a sorpresa (sei anni dopo Años lentos, che guardava indietro, verso l’infanzia) nel suo eccezionale incrocio tra prosa, memoria, poesia. Una delle «passioni giovanili» di Aramburu, questa, tanto che alla «poesia che scrivono gli altri», come ha annunciato in un’intervista a «Abc», sarà dedicato il suo prossimo libro. Intanto, senza conoscere chi siano questi altri, il pensiero corre in Spagna a Jaime Gil de Biedma, che ricorda in No volveré a ser joven quando «invecchiare, morire, erano solamente/ le dimensioni del teatro» o, fuori della Spagna, alla malinconia di Iosif Brodskij che, in Strofe veneziane, desidera «crollare sul letto, stringersi a ossa vive/ come a uno specchio ardente, dalla cui superficie/ nessun dito potrà più scrostarvi». Per il momento sappiamo che i versi di Federico García Lorca scatenarono in lui, a dodicitredici anni, «un fervore incurabile».
Un nuovo romanzo c’è, ma preferisce non parlarne perché «ancora la creatura deve nascere». «Esporre la gravidanza ai raggi X non fa bene al bambino» dice sempre anche Amos Oz quando gli chiedono che cosa stia scrivendo. Lo straordinario successo di Patria — che ha venduto 700 mila copie in Spagna, ed è entrato nelle prime posizioni delle classifiche italiane, tedesche e adesso anche francesi — è servito forse a fare trovare a quest’uomo dalla apparente tranquillità il coraggio di «aprire una finestra sulla sua dimensione interiore». Ma perché ci vuole convincere che un quadro così fedele al suo soggetto, cioè sé stesso, possa essere «senza» chi lo ha dipinto? È forse il paradosso della scrittura, che si allontana quanto più si avvicina al centro. «Abito da quando sono nato — si legge all’inizio — in un uomo chiamato Fernando Aramburu. Abbiamo passato tanto tempo insieme che ormai non so se lui sia io o io sia lui».
Non dategli retta, però, quando parla di una «piccola e modesta verità perso-