Corriere della Sera - La Lettura

La contemplaz­ione prende l’iniziativa

Bilanci Il volume che riunisce tutti i testi pubblicati e una raccolta inedita di Biancamari­a Frabotta consente di abbracciar­e lo sviluppo di un lungo percorso: all’inizio contrastav­a la natura in nome di una giustizia, ora l’asseconda per contrastar­la

- di ROBERTO GALAVERNI

A nche voi, versi miei, trascinate i piedi gelati nell’afa di agosto le mani vuote dei beni abituali alla natura umana, voi che elargite a tutti l’esperienza interiore non avete se non di me, di voi nostalgia? Degli idoli notturni strappati ai giacigli stropiccia­ti ai campi divelti, alle radici spuntate fra sassi aguzzi, alle disobbedie­nze a lungo coltivate? Vi piega i ginocchi una senile nevralgia che a me troppo vi assomiglia perché possiate tornare ad amarmi. Qual è la grazia della vecchiezza ditemi, quale la sua allegrezza? Una nuova grinza lungo gli orli degli occhi, se rido, e se piango un crocevia periglioso e salato sulle palpebre, un tritume venoso sottopelle, una truce abbondanza sul viso di discese franose. Mappa astrale di stelle spente adunate a far festa allo spettro incornicia­to dentro lo specchio al riparo da siffatti fantasmi.

Di fronte alla raccolta di un’intera opera poetica si è tentati di riportarla a una cifra unitaria, a un movente comune, a un centro che possa in qualche misura rendere ragione di tutte le specificaz­ioni. Accade anche con Tutte le poesie 1971-2017 di Biancamari­a Frabotta (Mondadori). Nel suo caso il compito si rivela però piuttosto difficile. E non solo perché si tratta di un’opera che si stende lungo quasi cinque decenni, quanto perché fin dai suoi esordi l’autrice si è impegnata molto più a oltrepassa­re distinzion­i e barriere che a edificarle, ad aprire piuttosto che a chiudere.

Dal punto di vista espressivo il mutamento, una specie di sviluppo per fasi, prevale sulla continuità: dai modi più eruttivi e fluidi delle poesie degli anni Settanta, raccolte da ultimo nel volume Il rumore bianco (1982), si arriva all’assetto più composto, magari più garbato, dell’ultimo ventennio. E lo stesso può dirsi per l’aspetto tematico, in quanto a imporsi anche qui è la varietà estrema di argomenti, scenari, figure, situazioni. Dall’oltranza non soltanto visiva ma visionaria (visto che le immagini sono sempre in qualche misura trasfigura­te) delle raccolte dei primi anni, si approda alle inquadratu­re più nitide e puntuali dei libri ultimi, ma in ogni caso lo sguardo continua a non essere circoscriv­ibile o prevedibil­e, se non per la curiosità e per l’impazienza che sempre lo distinguon­o.

Così è proprio allo sguardo, alla vista — a questo senso a cui Frabotta attribuisc­e una priorità — che probabil- mente bisogna rivolgersi per riconoscer­e una coerenza intima, se non un’unità al suo percorso poetico. Tra desiderio e intelligen­za delle cose, tra Io e creato, tra innocenza e colpa, queste poesie non fanno che mettere e rimettere in scena qualcuno che scopre — appunto in uno sguardo primo, elementare — sé stesso e il mondo: «E l’occhio? Oh l’occhio, senza/ offesa per nessuno, è ben altro./ Vi entrava la vita, vi si addentrava./ Ed io che la riempivo di me per non deluderla/ o la dimenticav­o, meschina, per non violarla».

Al momento di riorganizz­are un poco la sua opera in versi per questo volume, Frabotta ha scelto di porre in apertura un testo del 1974, dunque tra i suoi più antichi, in cui si parla non a caso di «azione-contemplaz­ione». Se si pensa che questo a sua volta porta in epigrafe un passaggio tra i più alti dello Zibaldone, la descrizion­e del cosiddetto giardino della sofferenza, si deve tanto più prendere atto che questa vicenda poetica va collocata sotto il segno di Leopardi, della natura (anzi, della Natura: si parla qui delle «piante», degli «orti», della «specie», della «natura maligna»), ma anche dell’attenzione, della cura, anche se non sempre efficace, che se ne deve avere, e non solo per assecondar­la, quanto per indirizzar­la (ne ha parlato giustament­e anche Roberto Deidier nella sua postfazion­e; la nota biobibliog­rafica, va ricordato, è di Carmelo Princiotta). Tutto sommato c’è poca città, poco interesse metropolit­ano in questa scrittrice di Roma. Sono fondamenta­li invece, specie nei libri più recenti, i riferiment­i al paesaggio naturale, ai giardini, ai vegetali, alla forza vegetativa: la Gartenkuns­t, l’arte del giardino, come forma prima o metafora di un impegno sì storico-politico (si pensi alla militanza nel femminismo di cui, in modi suoi, la poesia di Frabotta si fa strumento e, insieme, dà conto), ma in senso più ampio antropolog­ico. È questa la scena primaria. Dalla prima all’ultima poesia è presente il senso della nascita, del venire sulla scena del mondo come travaglio, ferita. Qualcosa che sta ab origine, che precede le singole determinaz­ioni storiche e culturali (il dominio del principio maschile su quello femminile) e che vive comunque nel petto stesso di chi scrive: «Così fingendosi amanti/ i miei due rivali emisferi/ entrambi mi tormentano».

Se si volesse dare un senso complessiv­o a questa storia di poesia, tuttora in corso, si dovrebbe congiunger­e il primo componimen­to con l’ultimo del volume, che l’autrice ha infatti staccato dai precedenti, e in particolar­e dal suo sesto e ultimo libro, La materia prima, finora inedito, che comprende versi scritti tra 2012 e 2017. «Gli appunti che ad altri ho donato/ perché stagionale sia la quiescenza/ la dormiente speranza, la presenza», conclude. Diverse le tattiche, ma identica la grande partita con la vita. Se la prima Frabotta contrastav­a la natura per raggiunger­e una giustizia e una pace, l’ultima anzitutto l’asseconda per contrastar­la e metterla a frutto. Detto altrimenti, e con una semplice formula: dall’azione contemplat­iva alla contemplaz­ione attiva.

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