Corriere della Sera - La Lettura
La contemplazione prende l’iniziativa
Bilanci Il volume che riunisce tutti i testi pubblicati e una raccolta inedita di Biancamaria Frabotta consente di abbracciare lo sviluppo di un lungo percorso: all’inizio contrastava la natura in nome di una giustizia, ora l’asseconda per contrastarla
A nche voi, versi miei, trascinate i piedi gelati nell’afa di agosto le mani vuote dei beni abituali alla natura umana, voi che elargite a tutti l’esperienza interiore non avete se non di me, di voi nostalgia? Degli idoli notturni strappati ai giacigli stropicciati ai campi divelti, alle radici spuntate fra sassi aguzzi, alle disobbedienze a lungo coltivate? Vi piega i ginocchi una senile nevralgia che a me troppo vi assomiglia perché possiate tornare ad amarmi. Qual è la grazia della vecchiezza ditemi, quale la sua allegrezza? Una nuova grinza lungo gli orli degli occhi, se rido, e se piango un crocevia periglioso e salato sulle palpebre, un tritume venoso sottopelle, una truce abbondanza sul viso di discese franose. Mappa astrale di stelle spente adunate a far festa allo spettro incorniciato dentro lo specchio al riparo da siffatti fantasmi.
Di fronte alla raccolta di un’intera opera poetica si è tentati di riportarla a una cifra unitaria, a un movente comune, a un centro che possa in qualche misura rendere ragione di tutte le specificazioni. Accade anche con Tutte le poesie 1971-2017 di Biancamaria Frabotta (Mondadori). Nel suo caso il compito si rivela però piuttosto difficile. E non solo perché si tratta di un’opera che si stende lungo quasi cinque decenni, quanto perché fin dai suoi esordi l’autrice si è impegnata molto più a oltrepassare distinzioni e barriere che a edificarle, ad aprire piuttosto che a chiudere.
Dal punto di vista espressivo il mutamento, una specie di sviluppo per fasi, prevale sulla continuità: dai modi più eruttivi e fluidi delle poesie degli anni Settanta, raccolte da ultimo nel volume Il rumore bianco (1982), si arriva all’assetto più composto, magari più garbato, dell’ultimo ventennio. E lo stesso può dirsi per l’aspetto tematico, in quanto a imporsi anche qui è la varietà estrema di argomenti, scenari, figure, situazioni. Dall’oltranza non soltanto visiva ma visionaria (visto che le immagini sono sempre in qualche misura trasfigurate) delle raccolte dei primi anni, si approda alle inquadrature più nitide e puntuali dei libri ultimi, ma in ogni caso lo sguardo continua a non essere circoscrivibile o prevedibile, se non per la curiosità e per l’impazienza che sempre lo distinguono.
Così è proprio allo sguardo, alla vista — a questo senso a cui Frabotta attribuisce una priorità — che probabil- mente bisogna rivolgersi per riconoscere una coerenza intima, se non un’unità al suo percorso poetico. Tra desiderio e intelligenza delle cose, tra Io e creato, tra innocenza e colpa, queste poesie non fanno che mettere e rimettere in scena qualcuno che scopre — appunto in uno sguardo primo, elementare — sé stesso e il mondo: «E l’occhio? Oh l’occhio, senza/ offesa per nessuno, è ben altro./ Vi entrava la vita, vi si addentrava./ Ed io che la riempivo di me per non deluderla/ o la dimenticavo, meschina, per non violarla».
Al momento di riorganizzare un poco la sua opera in versi per questo volume, Frabotta ha scelto di porre in apertura un testo del 1974, dunque tra i suoi più antichi, in cui si parla non a caso di «azione-contemplazione». Se si pensa che questo a sua volta porta in epigrafe un passaggio tra i più alti dello Zibaldone, la descrizione del cosiddetto giardino della sofferenza, si deve tanto più prendere atto che questa vicenda poetica va collocata sotto il segno di Leopardi, della natura (anzi, della Natura: si parla qui delle «piante», degli «orti», della «specie», della «natura maligna»), ma anche dell’attenzione, della cura, anche se non sempre efficace, che se ne deve avere, e non solo per assecondarla, quanto per indirizzarla (ne ha parlato giustamente anche Roberto Deidier nella sua postfazione; la nota biobibliografica, va ricordato, è di Carmelo Princiotta). Tutto sommato c’è poca città, poco interesse metropolitano in questa scrittrice di Roma. Sono fondamentali invece, specie nei libri più recenti, i riferimenti al paesaggio naturale, ai giardini, ai vegetali, alla forza vegetativa: la Gartenkunst, l’arte del giardino, come forma prima o metafora di un impegno sì storico-politico (si pensi alla militanza nel femminismo di cui, in modi suoi, la poesia di Frabotta si fa strumento e, insieme, dà conto), ma in senso più ampio antropologico. È questa la scena primaria. Dalla prima all’ultima poesia è presente il senso della nascita, del venire sulla scena del mondo come travaglio, ferita. Qualcosa che sta ab origine, che precede le singole determinazioni storiche e culturali (il dominio del principio maschile su quello femminile) e che vive comunque nel petto stesso di chi scrive: «Così fingendosi amanti/ i miei due rivali emisferi/ entrambi mi tormentano».
Se si volesse dare un senso complessivo a questa storia di poesia, tuttora in corso, si dovrebbe congiungere il primo componimento con l’ultimo del volume, che l’autrice ha infatti staccato dai precedenti, e in particolare dal suo sesto e ultimo libro, La materia prima, finora inedito, che comprende versi scritti tra 2012 e 2017. «Gli appunti che ad altri ho donato/ perché stagionale sia la quiescenza/ la dormiente speranza, la presenza», conclude. Diverse le tattiche, ma identica la grande partita con la vita. Se la prima Frabotta contrastava la natura per raggiungere una giustizia e una pace, l’ultima anzitutto l’asseconda per contrastarla e metterla a frutto. Detto altrimenti, e con una semplice formula: dall’azione contemplativa alla contemplazione attiva.