Corriere della Sera - La Lettura
Sono un lobbista, affosso le leggi
Un rappresentante dei gruppi d’interesse ammette che in Italia il suo compito consiste soprattutto nell’ostacolare le decisioni. Ma rivendica la legittimità di un’azione che è fisiologica in una democrazia pluralista
La politica in balia dei gruppi di pressione: decisioni che incidono sulla vita di tutti promosse da poteri nascosti dietro le quinte. La perdita di fiducia nei meccanismi della rappresentanza politica e il fascino esercitato su molti elettori da progetti di democrazia diretta (via la mediazione dei delegati e anche l’intervento degli esperti, considerati camerieri della casta al potere), passano per una condanna senza appello delle lobby.
Organismi spesso associati a ogni nefandezza, le società che interagiscono col potere legislativo e con l’esecutivo preferiscono muoversi sott’acqua. Le lobby non si espongono in pubblico: evitano di rispondere alle critiche, anche quando le ritengono infondate. Una rara eccezione è Alberto Cattaneo, il fondatore della Cattaneo Zanetto & Co., società leader del lobbismo italiano che ha rappresentato molte grandi aziende comprese quelle della Silicon Valley, da Uber ad Airbnb.
Milanese sbarcato a Roma nel 2004 e da allora abituale frequentatore dei corridoi del potere, Cattaneo esce ora allo scoperto per raccontare il mondo del lobbismo e le sue regole, sfidando lo scetticismo dei cittadini e della stampa. Le lobby, sostiene nel libro Il mestiere del potere (Laterza), sono un elemento essenziale del processo democratico. Il loro effetto sul sistema dipende da come sono costruite (alcune puntano solo a creare reti di relazioni personali per condizionare i politici, altre cercano di cambiare la sostanza delle cose attraverso le leggi) e dalla consistenza dei poteri in campo.
Finita l’era dei poteri economici forti, e con la politica spesso paralizzata dai veti incrociati, il rischio che la lobby promuova svolte rispondenti all’interesse di pochi, anziché a quello generale, diventa trascurabile. Il pericolo vero è quello di una politica che, non essendo in grado di adottare misure efficaci, si riduca a pura narrazione, mentre l’attività legislativa si polverizza in mille microinterventi, esposti a improvvisi colpi di mano notturni nelle aule parlamentari.
Certo, seguendo Cattaneo nei suoi riferimenti storici e culturali, da Carl Schmitt a Karl Popper, leggendo la sua dichiarazione d’amore per «un mestiere che nella sua essenza riguarda la capacità di leggere il contesto sociale, politico e istituzionale per provare a trasformarlo a beneficio di un interesse specifico», si fa fatica ad accostare questa immagine quasi da ufficio studi a quella del lobbista animale da sottobosco che molti hanno in mente. Ma Cattaneo chiede al lettore di liberarsi dei pregiudizi e, per convincerlo, chiama in suo aiuto David Foster Wallace: «Se siete automaticamente certi di cosa sia la realtà, allora anche voi, come me, trascurerete tutte le eventualità. Ma se avrete imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano».
Così, seguendo Cattaneo, scopriremo che abbiamo un’idea un po’ datata delle dinamiche dei sistemi economici: quelli del XIX e di gran parte del XX secolo, dominati da industrie nazionali che avevano bisogno di un forte rapporto coi poteri politici locali per ottenere autorizzazioni, concessioni, leggi. Nel Terzo millennio delle democrazie occidentali in crisi tutto cambia, soprattutto perché il potere economico, ridimensionata l’industria manifatturiera, si è trasferito nella finanza apolide e nei giganti tecnologici dell’economia virtuale, privi di radicamento territoriale e quindi poco interessati a costruire rapporti organici con specifici centri di potere politico.
Per questi gruppi, racconta Cattaneo, evitare che la loro attività venga intralciata da vincoli, leggi e regolamenti conta più che promuovere una legislazione a loro favorevole.
Ed è così, tra cambiamento del quadro economico e indebolimento di una politica sempre meno capace di prendere decisioni efficaci che, confessa l’autore, si deteriora anche il ruolo dei consulenti: il lobbista vorrebbe essere parte del processo riformatore, ma in questo contesto si adegua. Così diventa ostruzionista: «La lobby — spiega Cattaneo — è chiamata a difendere un interesse. Non è suo compito modificare né il contesto, né il sistema con cui si fanno le leggi. Una lobby efficace è, quindi, costretta a lavorare con chi può bloccare l’azione degli altri: in un contesto politico che vive di veti, non può che lavorare sulle debolezze».
E la politica? Incapace di fare, si rifugia nello storytelling. Ma la narrazione crea negli elettori aspettative che nessuna azione parlamentare o di governo riesce a soddisfare. A questi motivi di crisi, diffusi in tutto l’Occidente, se ne aggiungono poi altri, peculiari del sistema italiano: la mancanza di quello che gli americani chiamano enforcement, il controllo sull’effettiva applicazione di una legge, la verifica dei suoi risultati. E poi, stante l’incapacità di varare poche leggi organiche, solide e durature, la produzione di una miriade di leggine, spesso inefficaci perché emendate in continuazione o prive dei decreti attuativi.
Il viaggio di Cattaneo è affascinante: dai dittatori che hanno realizzato grandi opere pubbliche — efficienza pagata con la cancellazione di ogni garanzia democratica — alle storie dei lobbisti più spregiudicati (e condannati) della storia italiana, come Francesco Pazienza. Passando per un racconto minuzioso del lavoro svolto nelle anticamere del potere, fuori dalla porta di un Consiglio dei ministri o di un’aula parlamentare: lavoro solitamente disprezzato dall’opinione pubblica e che Cattaneo presenta, invece, come un momento essenziale della democrazia intesa come rappresentanza di interessi diversi, tutti legittimi, in competizione tra loro.
Abolire le lobby, come propongono i sostenitori della democrazia diretta, secondo Cattaneo non risolverebbe i problemi. Anzi li aggraverebbe, perché il politico avrà sempre bisogno di qualcuno che gli rappresenti lo scenario dei diversi interessi: anche un dittatore con poteri assoluti si affida a dei consiglieri per le sue decisioni. Meglio, allora, la competizione tra rappresentanti di interessi diversi, della decisione inappellabile presa da un consigliere senza volto.
Quanto alle terapie da proporre, Cattaneo crede poco alla trasparenza assoluta: ne serve di più, ma il gioco politico richiede comunque un certo grado di riservatezza. Meglio concentrarsi sui meccanismi legislativi: «Oggi assistiamo alla barbarie di leggi che, appena varate, vengono modificate, spesso depotenziate, con un emendamento inserito a sorpresa in un provvedimento di tutt’altra natura. Inaccettabile. Servirebbe, invece, una verifica dei risultati conseguiti da una legge, effettuata a uno o due anni di distanza dalla sua entrata in vigore. Solo dopo dovrebbero essere ipotizzabili provvedimenti correttivi».
Possono sembrare semplici tecnicalità giuridiche a chi oggi vuole spazzare via in blocco un sistema di potere che considera corrotto. Ma, seguendo simili logiche, si scivola verso le celebri conclusioni del messicano subcomandante Marcos che 25 anni fa, in piena ribellione zapatista, confessò: «Noi non vogliamo conquistare il potere perché sappiamo che, se lo prendessimo, saremmo presi da lui».