Corriere della Sera - La Lettura
«Concerto Spaziale» da rigattiere Marclay suona sotto Fontana
Leone d’Oro a Venezia nel 2011 con «The Clock», l’artista arriva a Milano per una performance sonora al Museo del Novecento. «Recupero gli “strumenti” dando nuova vita a vecchi oggetti»
Il critico Nicolas Bourriaud, in Postproduction, ha ricordato che molti artisti attivi dalla fine degli anni Settanta si sono ispirati ai modi adottati dai deejay e dai programmatori informatici, elaborando una sorta di estetica del riciclo, del download, della manipolazione e della ricombinazione di cose-giàesistenti. Essi preferiscono assumere materiali realizzati. Che reinterpretano e ri-situano nel proprio spazio creativo. La loro strategia: re-mixare. In questo orizzonte potremmo iscrivere alcune personalità che tendono a spingersi verso territori dove i vari media si incontrano, entrano in collisione e si sovrappongono, fino a perdere la propria configurazione tradizionale. Si tratta, secondo Bourriaud, di «semionauti», che si destreggiano tra i segni dell’attualità.
Un posto centrale in questa cartografia è occupato da Christian Marclay, audace sperimentatore — filmmaker e musicista — che, sin dai primi anni Ottanta, si è impegnato per trasgredire la specificità dei linguaggi artistici. In una lunga conversazione con «la Lettura» alla vigilia del suo prossimo concerto-performance milanese (il 14 aprile nella Sala Fontana del Museo del Novecento), dice: «Spesso cambio i media di cui mi servo. Li considero solo come mezzi per esprimere le mie visioni. Del resto, la specificità dei media cambia continuamente. Ad esempio, che cosa significa oggi “videoarte” nel momento in cui ogni bambino gira e invia foto e filmati con un’intensità e una regolarità che non avremmo mai potuto immaginare prima? È una nuova ed elementare forma di scambio e di espressione, effimera come una conversazione intorno a un tavolo. Per millenni gli artisti hanno usato le immagini per esprimersi. Ormai tutti usano le immagini per comunicare».
Dunque, immagini e suoni non possiedono più la loro identità tradizionale, secondo Marclay: «Al mondo piace ancora suddividere i cinque sensi, ma tutti i sensi sono guidati dal cervello. Immagini e suoni sono la medesima cosa: si co-appartengono, come accade nella vita. La tecnologia li sta riavvicinando».
Muovendo dal superamento dei confini che separano le varie pratiche, l’artista statunitense pensa le sue opere — film e concerti — sempre come declinazioni diverse di uno tra gli artifici più amati dai protagonisti delle avanguardie primo novecentesche: il collage. Inteso come sintesi mai compiuta, esperienza non riproduttiva, ma decostruttiva e, insieme, ri-costruttiva, provvisoria; non statica, ma processuale, dinamica. Stratagemma che si fonda su diversi passaggi. Dapprima, il prelievo di frammenti del reale. Poi, il montaggio di quei frammenti in puzzle inattesi, spesso stranianti. Marclay: «Per me, l’arte è ciò che mi permette di reagire al mondo in cui viviamo. Sono sempre stato un ammiratore del collage: mi piace riciclare ciò che fa parte del mio ambiente. Rovistare nel passato e nel presente è il mio modo per andare avanti. Il mio obiettivo: non inventare forme nuove ma reagire a ciò che mi circonda. E ancora: dare una seconda possibilità a cose che diamo per scontate; creare un nuovo contesto in cui inserirle, rivestendole di un diverso aspetto critico. Ecco: le cose che ci sono familiari devono essere guardate di nuovo, usate in modo differente».
Testimonianza di questa filosofia sono i tanti esercizi di Marclay. Si pensi a una videoinstallazione come The Clock (2011, Leone d’Oro a Venezia), colossale montaggio di spezzoni tratti da un vastissimo numero di film nei quali compare un orologio o un riferimento all’orario che coincide con l’attimo in cui esso viene proiettato: «Sono sempre stato affascinato dal tempo e dal modo in cui il tempo si manifesta attraverso le nostre vite», afferma. E si pensi anche alle performance della fine degli anni Settanta, nelle quali l’artista si appropria di dischi, concepiti come dispositivi utili per registrare e per am- plificare suoni, ma anche come oggetti dotati di una propria autonomia. Marclay interviene su questi supporti, per creare surreali assemblaggi e arditi giochi di parole. Da queste istanze sono nati i progetti portati avanti sin dal 2011. Raffinato rigattiere, l’artista colleziona dischi in vinile e giradischi, concentrandosi unicamente sull’acustica naturale di quei «reperti». Inoltre, raccoglie tanti altri oggetti quotidiani anch’essi dotati di segrete potenzialità sonore.
È quel che accadrà anche nel Concerto Spaziale. Sarà come un elogio dell’improvvisazione. Il 10 aprile Marclay arriverà a Milano, per iniziare le sue scorribande urbane. Racconta: «Non so ancora cosa troverò. Userò oggetti che recupererò in città. Oggetti di uso comune, con cui tutti abbiamo familiarità, per niente misteriosi. E me ne servirò come se fossero chitarre o batterie». Nascerà così uno spettacolo nel quale le voci di quegli oggetti saranno combinate con le voci emesse da strumenti «veri» gestiti dal violoncellista Okkyung Lee e dal percussionista Luc Mueller. Ne risulterà una composizione imprevedibile, segnata da plurali stimoli acustici e visivi. Una sinfonia in cui si accorderanno timbri cacofonici. «Gli spettatori dovranno ascoltare i piccoli suoni con un coinvolgimento attivo». In filigrana, echi dal punk e soprattutto da Cage: «Mi ha fatto capire che il rumore può anche essere musica». Ma non solo. Concerto Spaziale è anche un indiretto omaggio all’avanguardia italiana. Innanzitutto, a Fontana. L’happening si svolgerà al Museo del Novecento al di sotto del vortice di neon disegnato dal padre dello spazialismo: un modo per porre in dialogo la dissonanza sonora con la purezza della luce. «Mi sento vicino a Fontana, che utilizzava tanti materiali per le sue opere: la tela, l’argilla, il neon. Dipingeva e scolpiva attraverso azioni violente. In questa occasione, proverò a relazionarmi con il suo mondo».