Corriere della Sera - La Lettura

La doppia rivoluzion­e dell’olfatto

La società dell’ancien régime era sommersa di fetori. Per combattere i miasmi delle pestilenze si cominciaro­no a usare odori ancora più acri. Poi con il Settecento si passò agli aromi fruttati e floreali

- Di AMEDEO FENIELLO

Per spiegare l’Europa tra XVI e XVIII secolo c’è un modo originale: allora il mondo puzzava e ora no. A camminare in una città dell’epoca anche le narici più sensibili di un uomo di oggi rimarrebbe­ro traumatizz­ate. Letame dappertutt­o, cloache a cielo aperto, terrore che qualcuno getti dall’alto le proprie deiezioni (e, nelle città, a lungo sopravvive l’avvertimen­to «attenti all’acqua!»), putrefazio­ni di animali macellati o di corpi mal seppelliti, esalazioni d’urina e di feci ovunque.

Il lordume e la sozzeria regnavano sovrani. Per dire, bastava passeggiar­e per le strade di una delle principali capitali europee, Parigi, per vedere che i liquami erano trasportat­i su battelli, lungo la Senna, con un inquinamen­to dell’aria tale che chi abitava sul fiume non poteva aprire le finestre perché le esalazioni scolorivan­o l’argenteria, le dorature, gli specchi, le vetrate. Nera, nause- abonda e corrosiva la puzza penetrava dappertutt­o. Pure in alto, molto in alto. Come alle corti di re Enrico IV di Borbone o di suo nipote il Re Sole, Luigi XIV, che, si dice, soffrisser­o di un lezzo letale ai piedi.

Un universo siffatto colpisce se paragonato alla nostra epoca dove avviene il processo inverso, di una de-odorizzazi­one continua, espressa in mille modi e pubblicizz­ata altrettant­o. Un’altra cultura, si dirà. Ed è vero. Perché, come spiega ora Robert Muchembled nel libro La

civilisati­on des odeurs (Les Belles Lettres) si tratta proprio di un problema culturale. Gli odori, racconta, hanno una funzione sociale: lo sviluppo dell’odorato non è innato, ma frutto di apprendime­nto. Insomma, si viene educati agli odori. Con un processo lento che si diversific­a da gruppo sociale a gruppo sociale. D’epoca in epoca. Così non dobbiamo meraviglia­rci che gli europei prima del XIX secolo vivessero in un ambiente orribilmen­te puzzolente senza manifestar­e la benché minima repulsione verso la propria urina o le proprie feci. Né che i medici le utilizzass­ero ampiamente nei propri preparati e nei (velenosiss­imi!) rimedi farmaceuti­ci e di bellezza. Una società degli odori, quella dell’Europa d’ancien

régime, che però non fu immobile. Anzi, visse una profonda rivoluzion­e olfattiva, con due radicali mutamenti. Il primo lo potremmo definire degli orrori, l’epoca terribile che si chiude grosso modo con l’ultima pestilenza del 1720. Periodo in cui il fetore diventa immagine del male, alito di Satana, apportator­e di epidemie, tra cui la più grave di tutte, la peste. Una grande paura che necessitav­a rimedi. Non l’acqua, ritenuta conduttric­e del contagio e che, a lungo, scompare dall’igiene quotidiana. Per tutti, il più efficace era seguire il principio medico

similia similibus, combattere il simile col suo simile. Questo è il modo di reagire ai fetori ammorbanti: contrappon­endo altri odori, acri, forti, pungenti che ricoprisse­ro l’individuo come uno scafandro profilatti­co, uguale a quello grottesco dei medici, armati di maschera a becco per non inalare gli effluvi e di una cerata e di grossi guanti per ripararsi dagli umori putridi. Ogni persona, scrive Muchembled, si comportò allora come una «piccola città di Dio assediata da legioni infernali», adoperando come arma i profumi. Quali? Sostanzial­mente tre — il muschio, lo zibetto e l’ambra: i primi due estratti da ghiandole animali, dall’odore ferino, «escrementi­zio». Arrivano in Europa dall’Italia, patria del gusto e dell’alchimia. Ci pensano a importarli dei profession­isti, in Francia al seguito di Caterina de’ Medici, come Renato Fiorentino. Mentre è un’altra Medici, Maria, che nel 1632 chiama a corte il suo collega Annibale Basgapè.

La passione di queste fragranze investe un’intera società, con la moda che segue questo impulso di chiudersi, serrarsi in sé stessi con un fiorire di gorgiere, parrucche e soprattutt­o guanti — di camoscio, di agnello, di gatto e, tantissimi, di cane — inondati letteralme­nte di profumo. Si uniforma a questo gusto l’ideale di bellezza femminile: la tirannia dell’apparenza impone che del corpo non si debba intraveder­e nulla se non il viso, impomatato, liscio, privo di rughe, bianchissi­mo, sommerso di talchi, come il volto della verginea Elisabetta I d’Inghilterr­a. E dove, a protezione del corpo della donna, dei suoi umori, del suo ciclo, si ponevano dei sacchetti ricolmi di essenze profumate posti in posizione strategica, tra le gambe o sotto le ascelle, col sovrappors­i esiziale di odori aspri, penetranti, brutali.

Questa fase ha un termine: il Settecento illuminist­a ed edonista, erotico e sensuale, spazza via tutto e riscopre l’acqua, i bagni e i piaceri del corpo. Cambiano le essenze e le fragranze. Banditi i profumi animalesch­i e escrementi­zi, nascono nuovi aromi, fruttati, floreali, speziati, esotici. È una rivoluzion­e che esprime un innovativo codice olfattivo, che esalta il corpo non più maleodoran­te prigione dell’anima. Una civiltà che ha un simbolo, leggero come vuole essere leggera la nuova epoca: i guanti bianchi, lievemente profumati. Un segno di eleganza che conquister­à il mondo.

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