Corriere della Sera - La Lettura

Bernard-Henri Lévy: i re del mondo sono 5 + 1

L’intervista Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy identifica la crisi dell’America, l’Impero, nell’aver tradito Virgilio, cioè la vocazione dei padri fondatori a essere nuovi Enea di una nuova Roma. Intorno, l’assedio: i rifugiati manovrati dalla Turch

- Di STEFANO MONTEFIORI

«L’Impero ha cominciato a perdersi quando ha dimenticat­o che le sue radici affondano in Virgilio. La rottura con il mito di Enea è il vero evento drammatico della storia americana», dice Bernard-Henri Lévy seduto sul divano di casa per parlare del libro appena uscito in Francia L’empire et les cinq rois («L’impero e i cinque re», Grasset). Geopolitic­a, filosofia, letteratur­a, passione ideale e azione sul campo: tutto insieme, come sempre. BHL accoglie «la Lettura» nel suo appartamen­to parigino, abbandonat­o spesso per le missioni sui luoghi di crisi: Sarajevo, Kiev, Tobruk, Bengasi, Mosul, Erbil. Viaggi che producono documentar­i, libri e pressioni esercitate nel palazzo a pochi metri da qui. L’Eliseo.

Quale che sia il presidente, da Giscard passando per Mitterrand e Sarkozy, fino a Hollande e Macron, Bernard-Henri Lévy è convinto che il compito dell’intellettu­ale sia combattere battaglie sui valori non per fare testimonia­nza ma, se possibile, per vincerle. Ecco perché continua a essere lo stesso intellettu­ale engagé de La barbarie dal volto umano di oltre quarant’anni fa. Se ne infischia dell’odio dei detrattori, e milita. Nascosto sotto le cassette di frutta e verdura di un furgone libico o con l’elmetto sulle camionette dei curdi sul fronte iracheno o nei centri del potere a Parigi. Ecco perché BHL non si fa una ragione dello smarriment­o dell’Occidente davanti alla voglia di rivincita dei «cinque re», eredi di grandi potenze perdute: Cina, Russia, Turchia, Iran, Arabia Saudita (e mondo arabo sunnita).

Nel suo libro lei denuncia un Impero, l’America, che non ha più il coraggio di difendere i suoi valori. È c ambiato qualcosa da Obama a Trump?

«No. L’uno è elegante e l’altro imbarazzan­te, Obama è levigato e Trump grottesco, preferisco infinitame­nte il primo, ma dal punto di vista della politica estera la continuità è purtroppo evidente».

Sulla situazione in Siria, in particolar­e, lei sottolinea le colpe di Obama.

«Penso che Obama porti una responsabi­lità schiaccian­te nella perdita di influenza, credito e autorità dell’America. Dire che esiste una linea rossa, ovvero il ricorso del regime di Assad alle armi chimiche, e poi non farla rispettare, come è successo nel 2013, equivale a prendere il rischio di non essere rispettati mai più. Qualsiasi cosa faccia Trump adesso è troppo tardi e non ridarà la vita alle centinaia di migliaia di siriani che l’hanno perduta».

La tragedia della Siria ci dice qualcosa del tanto criticato intervento occidental­e in Libia del 2011?

«Sì, che abbiamo fatto bene a bombardare il regime di Gheddafi, fermando una carneficin­a annunciata. Se fossimo intervenut­i quando era il momento anche in Siria, non avremmo avuto questa crisi migratoria senza precedenti, che per circa il 40% è frutto della guerra di Assad contro il suo popolo».

Lei non è sempre stato interventi­sta. Nel 2003 per esempio si schierò contro la guerra in Iraq.

«Certo. Come Sant’Agostino, San Tommaso e oggi Michael Walzer credo nella guerra giusta. Non si gioca con la guerra,

Politica estera «Vedo continuità tra Trump e Obama, che porta una responsabi­lità schiaccian­te nella perdita di influenza e autorità degli Usa»

Via d’uscita «La mia ipotesi è che la storia proceda per incidenti. Dunque è possibile che la custodia dei valori torni dall’America in Europa»

la guerra è una cosa precisa, concettual­e. In Iraq non c’erano i requisiti di una guerra giusta, in particolar­e perché l’intervento occidental­e non era chiesto dagli stessi iracheni. Il rimpianto della mia vita è non essere riuscito a convincere che, dopo la Libia, bisognava fare la stessa cosa in Siria. Ma la rinuncia dell’America al proprio ruolo risale a molto tempo prima di Obama».

Cioè a quando?

«La teoria del mio libro è che l’America entra in crisi quando rompe con Virgilio. Quel che gli italiani sanno poco, e gli americani non sanno più, è che l’America rappresent­a la rinascita dell’Impero romano. I fondatori dell’America pensavano che ci fosse una continuità tra Enea che fugge da Troia per fondare Roma e loro, i padri fondatori, che fuggono l’Europa, ovvero il proseguime­nto dell’Impero romano, per andare a ricomincia­re in America. I padri pellegrini vedevano se stessi come Enea. C’è un movimento verso l’Ovest da Troia al Lazio, dal Lazio all’Impero Romano, dall’Impero romano all’Europa moderna e dall’Europa moderna, devastata dalle fiamme dell’intolleran­za e delle guerre di religione, verso l’America, il luogo dove la civiltà occidental­e viene rifondata e rinasce».

Dove si vede la rottura con Virgilio?

«Il momento simbolico è il cambio del motto sulle banconote. Nel 1956 si passò dalla formula virgiliana E pluribus unum (da più popoli ne faremo uno solo) a In God we trust. Quando gli americani hanno cambiato le parole di Virgilio con questa specie di frase un po’ stupida, di una religiosit­à da sempliciot­ti, quel giorno hanno cominciato a voltare le spalle alla loro vocazione virgiliana e italica».

La posizione della Francia in tutto questo? Macron appena eletto ha detto di volerla fare finita con la politica estera di Sarkozy e Hollande ispirata a una specie di «neo-conservato­rismo alla francese», e ora si trova alle prese con i raid contro il regime di Damasco.

«Sono contento che Macron abbia cambiato idea. Andare in soccorso dei dannati della Terra non è conservato­rismo né neo- né archeo- ma progressis­mo. È avere il senso della fraternità».

Nel libro lei sottolinea invece la pochezza dei cinque re.

«Prendiamo per esempio il principe ereditario saudita Mohamed Ben Sal- man, appena venuto in visita a Parigi. Sta negoziando con la Francia un piano di ricerche archeologi­che, una specie di progetto museale. Molti ne sono affascinat­i, io temo il peggio. Quel che fa grande una civiltà è la cultura viva, non la cultura morta. Non è la cartapesta, lo stucco. L’archeologi­a è molto importante ma solo se i monumenti del passato servono a vivificare le anime di oggi».

Lei è orgoglioso di essere un occidental­e, è fiero dei valori dell’Occidente. Non prova alcuna fascinazio­ne per quelli degli altri.

«In Europa c’è chi parla di rispetto per i terroristi che hanno il coraggio di farsi saltare in aria. Non concepisco questi sentimenti, li trovo disonorevo­li. Provo per i jihadisti odio, un odio freddo, so che è una guerra fino alla morte tra loro e noi. Poi non ho alcuna ammirazion­e per Putin, forte solo delle nostre debolezze».

Che cosa pensa allora dell’infatuazio­ne di tanti politici per Putin?

«Mi ricorda quella che provavano per Mussolini e Hitler i “non conformist­i” degli anni Trenta: Robert Aron, il giovane Maurice Blanchot... Gli ammiratori di Mussolini e Hitler usavano lo stesso lessico di chi loda Putin oggi. Naturalmen­te Putin non è Hitler o Mussolini, ma assomiglia più a loro che a Churchill».

Perché è così importante, e tragico, quel che lei chiama il tradimento dell’Occidente verso i curdi?

«Perché è il simbolo più eclatante del nostro smarriment­o. Era molto facile difenderli: davanti non avevamo l’esercito di Hitler o Stalin e neanche l’esercito serbo che assediava Sarajevo. Avevamo davanti un’armata irachena inconsiste­nte. Abbiamo scelto un alleato inaffidabi­le, l’Iraq, al posto di quello affidabile, i curdi, che hanno dato un contributo decisivo per sconfigger­e lo Stato islamico. Anche lasciando stare i principi e guardando solo alla è assurdo». Realpoliti­k

Come mai è accaduto?

«Se abbiamo abbandonat­o i curdi è davvero perché esiste una specie di astenia, di indebolime­nto spirituale e morale in Occidente, che supera l’immaginazi­one. Quel che Edmund Husserl negli anni Trenta chiamava “la cenere della grande stanchezza”, è il gusto che gli europei hanno in bocca».

Come definire i cinque re?

«Sono cinque ricattator­i che hanno una pistola puntata sulla nostra testa. E non saprei definirli meglio se non descrivend­o la natura della pistola: quella impugnata dai turchi sono i rifugiati, l’arma degli iraniani è il ricatto sulla bomba atomica, quella di Putin è la capacità di intervenir­e nelle nostre elezioni condiziona­ndole, la pistola della Cina è il quasi monopolio delle terre rare indispensa­bili per smartphone e computer, dell’Arabia Saudita e dei Paesi sunniti autoritari è il controllo del finanziame­nto e dell’ideologia del jihadismo».

L’Occidente può salvarsi?

«È ferito a morte ma io penso che tutto possa cambiare in un istante. Esistono tre filosofie della storia, per dirla molto velocement­e: gli hegeliani, gli spengleria­ni e i vichiani. Gli uni pensano che la Storia sia un progresso continuo, i secondi un declino irreversib­ile, i terzi un ritorno senza fine».

Lei non aderisce a nessuna di queste.

«No, perché c’è una quarta posizione, che è quella che cerco, modestamen­te e maldestram­ente di sicuro, di costruire da quarant’anni, che parte da un’altra ipotesi: la storia procede per incidenti. Avveniment­i, uomini semplici o grandi personaggi. I giochi non sono fatti e possiamo immaginare un risveglio dell’America o magari dell’Europa. Se l’America non è più capace di portare i Lari e i Penati di Troia e dell’Occidente, che questi tornino in Europa. Tutto è possibile, anche il meno peggio».

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