Corriere della Sera - La Lettura
Bernard-Henri Lévy: i re del mondo sono 5 + 1
L’intervista Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy identifica la crisi dell’America, l’Impero, nell’aver tradito Virgilio, cioè la vocazione dei padri fondatori a essere nuovi Enea di una nuova Roma. Intorno, l’assedio: i rifugiati manovrati dalla Turch
«L’Impero ha cominciato a perdersi quando ha dimenticato che le sue radici affondano in Virgilio. La rottura con il mito di Enea è il vero evento drammatico della storia americana», dice Bernard-Henri Lévy seduto sul divano di casa per parlare del libro appena uscito in Francia L’empire et les cinq rois («L’impero e i cinque re», Grasset). Geopolitica, filosofia, letteratura, passione ideale e azione sul campo: tutto insieme, come sempre. BHL accoglie «la Lettura» nel suo appartamento parigino, abbandonato spesso per le missioni sui luoghi di crisi: Sarajevo, Kiev, Tobruk, Bengasi, Mosul, Erbil. Viaggi che producono documentari, libri e pressioni esercitate nel palazzo a pochi metri da qui. L’Eliseo.
Quale che sia il presidente, da Giscard passando per Mitterrand e Sarkozy, fino a Hollande e Macron, Bernard-Henri Lévy è convinto che il compito dell’intellettuale sia combattere battaglie sui valori non per fare testimonianza ma, se possibile, per vincerle. Ecco perché continua a essere lo stesso intellettuale engagé de La barbarie dal volto umano di oltre quarant’anni fa. Se ne infischia dell’odio dei detrattori, e milita. Nascosto sotto le cassette di frutta e verdura di un furgone libico o con l’elmetto sulle camionette dei curdi sul fronte iracheno o nei centri del potere a Parigi. Ecco perché BHL non si fa una ragione dello smarrimento dell’Occidente davanti alla voglia di rivincita dei «cinque re», eredi di grandi potenze perdute: Cina, Russia, Turchia, Iran, Arabia Saudita (e mondo arabo sunnita).
Nel suo libro lei denuncia un Impero, l’America, che non ha più il coraggio di difendere i suoi valori. È c ambiato qualcosa da Obama a Trump?
«No. L’uno è elegante e l’altro imbarazzante, Obama è levigato e Trump grottesco, preferisco infinitamente il primo, ma dal punto di vista della politica estera la continuità è purtroppo evidente».
Sulla situazione in Siria, in particolare, lei sottolinea le colpe di Obama.
«Penso che Obama porti una responsabilità schiacciante nella perdita di influenza, credito e autorità dell’America. Dire che esiste una linea rossa, ovvero il ricorso del regime di Assad alle armi chimiche, e poi non farla rispettare, come è successo nel 2013, equivale a prendere il rischio di non essere rispettati mai più. Qualsiasi cosa faccia Trump adesso è troppo tardi e non ridarà la vita alle centinaia di migliaia di siriani che l’hanno perduta».
La tragedia della Siria ci dice qualcosa del tanto criticato intervento occidentale in Libia del 2011?
«Sì, che abbiamo fatto bene a bombardare il regime di Gheddafi, fermando una carneficina annunciata. Se fossimo intervenuti quando era il momento anche in Siria, non avremmo avuto questa crisi migratoria senza precedenti, che per circa il 40% è frutto della guerra di Assad contro il suo popolo».
Lei non è sempre stato interventista. Nel 2003 per esempio si schierò contro la guerra in Iraq.
«Certo. Come Sant’Agostino, San Tommaso e oggi Michael Walzer credo nella guerra giusta. Non si gioca con la guerra,
Politica estera «Vedo continuità tra Trump e Obama, che porta una responsabilità schiacciante nella perdita di influenza e autorità degli Usa»
Via d’uscita «La mia ipotesi è che la storia proceda per incidenti. Dunque è possibile che la custodia dei valori torni dall’America in Europa»
la guerra è una cosa precisa, concettuale. In Iraq non c’erano i requisiti di una guerra giusta, in particolare perché l’intervento occidentale non era chiesto dagli stessi iracheni. Il rimpianto della mia vita è non essere riuscito a convincere che, dopo la Libia, bisognava fare la stessa cosa in Siria. Ma la rinuncia dell’America al proprio ruolo risale a molto tempo prima di Obama».
Cioè a quando?
«La teoria del mio libro è che l’America entra in crisi quando rompe con Virgilio. Quel che gli italiani sanno poco, e gli americani non sanno più, è che l’America rappresenta la rinascita dell’Impero romano. I fondatori dell’America pensavano che ci fosse una continuità tra Enea che fugge da Troia per fondare Roma e loro, i padri fondatori, che fuggono l’Europa, ovvero il proseguimento dell’Impero romano, per andare a ricominciare in America. I padri pellegrini vedevano se stessi come Enea. C’è un movimento verso l’Ovest da Troia al Lazio, dal Lazio all’Impero Romano, dall’Impero romano all’Europa moderna e dall’Europa moderna, devastata dalle fiamme dell’intolleranza e delle guerre di religione, verso l’America, il luogo dove la civiltà occidentale viene rifondata e rinasce».
Dove si vede la rottura con Virgilio?
«Il momento simbolico è il cambio del motto sulle banconote. Nel 1956 si passò dalla formula virgiliana E pluribus unum (da più popoli ne faremo uno solo) a In God we trust. Quando gli americani hanno cambiato le parole di Virgilio con questa specie di frase un po’ stupida, di una religiosità da sempliciotti, quel giorno hanno cominciato a voltare le spalle alla loro vocazione virgiliana e italica».
La posizione della Francia in tutto questo? Macron appena eletto ha detto di volerla fare finita con la politica estera di Sarkozy e Hollande ispirata a una specie di «neo-conservatorismo alla francese», e ora si trova alle prese con i raid contro il regime di Damasco.
«Sono contento che Macron abbia cambiato idea. Andare in soccorso dei dannati della Terra non è conservatorismo né neo- né archeo- ma progressismo. È avere il senso della fraternità».
Nel libro lei sottolinea invece la pochezza dei cinque re.
«Prendiamo per esempio il principe ereditario saudita Mohamed Ben Sal- man, appena venuto in visita a Parigi. Sta negoziando con la Francia un piano di ricerche archeologiche, una specie di progetto museale. Molti ne sono affascinati, io temo il peggio. Quel che fa grande una civiltà è la cultura viva, non la cultura morta. Non è la cartapesta, lo stucco. L’archeologia è molto importante ma solo se i monumenti del passato servono a vivificare le anime di oggi».
Lei è orgoglioso di essere un occidentale, è fiero dei valori dell’Occidente. Non prova alcuna fascinazione per quelli degli altri.
«In Europa c’è chi parla di rispetto per i terroristi che hanno il coraggio di farsi saltare in aria. Non concepisco questi sentimenti, li trovo disonorevoli. Provo per i jihadisti odio, un odio freddo, so che è una guerra fino alla morte tra loro e noi. Poi non ho alcuna ammirazione per Putin, forte solo delle nostre debolezze».
Che cosa pensa allora dell’infatuazione di tanti politici per Putin?
«Mi ricorda quella che provavano per Mussolini e Hitler i “non conformisti” degli anni Trenta: Robert Aron, il giovane Maurice Blanchot... Gli ammiratori di Mussolini e Hitler usavano lo stesso lessico di chi loda Putin oggi. Naturalmente Putin non è Hitler o Mussolini, ma assomiglia più a loro che a Churchill».
Perché è così importante, e tragico, quel che lei chiama il tradimento dell’Occidente verso i curdi?
«Perché è il simbolo più eclatante del nostro smarrimento. Era molto facile difenderli: davanti non avevamo l’esercito di Hitler o Stalin e neanche l’esercito serbo che assediava Sarajevo. Avevamo davanti un’armata irachena inconsistente. Abbiamo scelto un alleato inaffidabile, l’Iraq, al posto di quello affidabile, i curdi, che hanno dato un contributo decisivo per sconfiggere lo Stato islamico. Anche lasciando stare i principi e guardando solo alla è assurdo». Realpolitik
Come mai è accaduto?
«Se abbiamo abbandonato i curdi è davvero perché esiste una specie di astenia, di indebolimento spirituale e morale in Occidente, che supera l’immaginazione. Quel che Edmund Husserl negli anni Trenta chiamava “la cenere della grande stanchezza”, è il gusto che gli europei hanno in bocca».
Come definire i cinque re?
«Sono cinque ricattatori che hanno una pistola puntata sulla nostra testa. E non saprei definirli meglio se non descrivendo la natura della pistola: quella impugnata dai turchi sono i rifugiati, l’arma degli iraniani è il ricatto sulla bomba atomica, quella di Putin è la capacità di intervenire nelle nostre elezioni condizionandole, la pistola della Cina è il quasi monopolio delle terre rare indispensabili per smartphone e computer, dell’Arabia Saudita e dei Paesi sunniti autoritari è il controllo del finanziamento e dell’ideologia del jihadismo».
L’Occidente può salvarsi?
«È ferito a morte ma io penso che tutto possa cambiare in un istante. Esistono tre filosofie della storia, per dirla molto velocemente: gli hegeliani, gli spengleriani e i vichiani. Gli uni pensano che la Storia sia un progresso continuo, i secondi un declino irreversibile, i terzi un ritorno senza fine».
Lei non aderisce a nessuna di queste.
«No, perché c’è una quarta posizione, che è quella che cerco, modestamente e maldestramente di sicuro, di costruire da quarant’anni, che parte da un’altra ipotesi: la storia procede per incidenti. Avvenimenti, uomini semplici o grandi personaggi. I giochi non sono fatti e possiamo immaginare un risveglio dell’America o magari dell’Europa. Se l’America non è più capace di portare i Lari e i Penati di Troia e dell’Occidente, che questi tornino in Europa. Tutto è possibile, anche il meno peggio».