Corriere della Sera - La Lettura
Un altro modo di pregare Dieci chiesette a Venezia
Nuova religiosità La Santa Sede parteciperà per la prima volta alla Biennale di Architettura creando a Venezia, sull’isola di San Giorgio, un percorso fra più strutture affidato a progettisti di diverse provenienze. Requisito comune: un altare e un pulpito. Nient’altro. Così, ispirati all’edificio di Gunnar Asplund per il cimitero di Stoccolma (1920), ecco luoghi che offriranno accoglienza e raccoglimento a visitatori di ogni credo. E che continueranno a vivere in armonia con l’ambiente
Come trasformare la Biennale di Venezia in una lezione di (nuova) religiosità. Sembra essere questo il credo che guida le scelte della Santa Sede quando affronta il palcoscenico dei Giardini, dell’Arsenale e più in generale della Laguna. Nel 2013, all’esordio con un «suo» Padiglione nell’edizione dedicata all’arte, il curatore Antonio Paolucci e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e commissario del padiglione, avevano così scelto un tema classico come quello della Genesi, affidandone però lo svolgimento a un trio di artisti non convenzionalmente religiosi: la creazione alle video-installazioni interattive degli italiani di Studio Azzurro; la de-creazione ai panorami urbani senza tempo del fotografo ceco Josef Koudelka, la nuova creazione al minimalismo concettuale dello statunitense Lawrence Carroll.
Quest’anno, per la prima volta del Vaticano alla Biennale dell’architettura (la numero 16, titolo Freespace, diretta da Yvonne Farrell e Shelley McNamara, dal 25 maggio al 25 novembre), i curatori del Padiglione della Santa Sede — Francesco Dal Co e Micol Forti, sempre con l’ausilio di monsignor Ravasi — hanno interpellato un gruppo di progettisti. L’americano Andrew Berman, l’italiano Francesco Cellini, il paraguayano Javier Corvalán, gli spagnoli Ricardo Flores e Eva Prats, il britannico Norman Foster, il giapponese Terunobu Fujimori, l’australiano Sean Godsell, la brasiliana Carla Juacaba, il cileno Smiljan Radic e il portoghese Eduardo Souto de Moura tracceranno «in un’area non molto frequentata e conosciuta dell’isola di San Giorgio Maggiore» (nel versante Sud, quello che ospita anche il «teatro verde») un percorso scandito da dieci cappelle, cui si aggiungerà un padiglione di introduzione al progetto disegnato dagli italiani Francesco Magnani e Traudy Pelzel. Dieci Vatican Chapels per un pellegrinaggio non soltanto religioso ma anche laico, che — spiegano i curatori— «potrà essere condotto da tutti coloro che desiderano riscop r i r e l a b e l l e z z a , i l s i l e n z i o , l a vo c e i n t e r i o r e e trascendente, la fraternità umana dello stare insieme nell’assemblea di un popolo, ma anche la solitudine del bosco dove si può cogliere il fremito della natura che è come un tempio cosmico».
Ognuno dei progettisti ha coniugato il tema «a propria immagine»: ad esempio Godsell, allievo dei Gesuiti, ha visto la sua opera come una cappella mobile che può viaggiare per il mondo, mentre Fujimori l’ha avvicinata alla proprie radici taoiste. Prendendo però un unico modello comune, quello della Skogskapellet, la Cappella nel bosco, costruita nel 1920 da Gunnar Asplund nel cimitero di Stoccolma dal 1994 inserito dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità: lo stesso dov’è oggi sepolta la divina Garbo, lo stesso cimitero dove, tra gli oltre diecimila alberi ultracentenari e le lapidi tutte di uguali dimensioni ridotte «per rappresentare l’uguaglianza di fronte alla morte», si aggirano lepri, volpi, scoiattoli.
Non si tratta di un modello qualunque. Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz avevano vinto nel 1915 il concorso per il Cimitero Sud di Stoccolma con una proposta «in cui la visione romantica della foresta nordica era stata in qualche modo filtrata dall’esperienza del viaggio in Italia». Lasciando pressoché intatto il bosco, gli architetti avevano disegnato sentieri affiancati da lapidi, tumuli ipogei e piccole cappelle, con radure e terrazzamenti come anfiteatri antichi, con un Boschetto della Meditazione e cappelle dedicate alla Fede, alla Speranza, alla Santa Croce. La Cappella nel bosco (di pianta quadrata, 9 metri per 9, più un porticato a colonne, capienza massima 35 ospiti) è stata la prima progettata da Asplund all’interno del cimitero e nelle intenzioni avrebbe dovuto inizialmente essere costruita di sasso: un’idea poi scartata per questioni di costi e dopo un viaggio in Danimarca (in particolare nel parco di Liselund) che avrebbe spinto Asplund a scegliere il più economico legno. Oggi si presenta come un piccolo edificio in legno circondato da abeti e da un muro, con pareti bianche e con il tetto che prende luce dall’alto.
Rivisitazione colta delle piccole chiese rurali scandinave, minimalista nelle linee e nei materiali, versione religiosa del less is more di Mies van der Rohe (l’unica decorazione è il piccolo Angelo della morte dorato scolpito da Carl Milles che si trova sopra il porticato a colonne), così essenziale da ispirare il silenzio e la riflessione: la Sgokskapellet rappresenta in qualche modo un modello di religiosità molto contemporanea che accomuna quel progetto ormai classico ad altri luoghi di preghiera più recenti, come la Chiesa dell’Anastasis di Álvaro Siza a Saint-Jacques-de-la-Lande in Francia, la Hiroo Church di Tadao Ando a Tokyo, il monastero di John Pawson a Novy Dvur in Boemia. Ma le sue suggestioni appaiono molto più eterogenee: dal quattrocentesco Tempietto del Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti alla Tomba Brion (1970-75) di Carlo Scarpa al Grande silenzio, filmdocumentario di Philip Gröning del 2005 in una Grande Chartreuse a una trentina di chilometri da Grenoble.
Perché, però, chiedere ai progettisti di costruire delle repliche ex novo? «Ho sempre provato — precisa Dal Co — una difficoltà, un’insofferenza per le mostre dove si presenta soltanto una parte di ciò che l’architettura è: belli i disegni, belli i modelli, belle le immagini, belli i rendering. Solo quando è costruita si può percepire tutto il potere e tutta la difficoltà che l’architettura ha nell’essere praticata nella maniera più significativa».
Il numero delle cappelle è simbolico perché esprime quasi un decalogo di presenze. Ma agli architetti è stato imposto solo di mantenere due componenti fondamentali: il pulpito e l’altare. Per il resto libertà assoluta, non a caso Freespace, spazio libero, è il titolo scelto per la Biennale 2018. E non saranno nemmeno cappelle consacrate, anche se in molte, sebbene non fosse stato assolutamente richiesto, ricorrerà il simbolo della Croce. Non andranno, dunque, intese come cappelle cristiane ma come luogo d’incontro e di preghiera al di là della forma e delle intenzioni, oltre ogni religione. Per ogni cappella dovrà essere, al contrario, prevista la possibilità di riutilizzo al termine dell’esposizione, dando priorità ai concetti di «tutela e rispetto dello spazio naturale circostante». Per avvicinare i visitatori alle ragioni di questa scelta, all’ingresso del padiglione verrà allestito l’Asplund Pavillon dove, accanto al modello realizzato per l’occasione, saranno esposti anche i disegni originali di Asplund prestati dal Canadian Centre for Architecture di Montreal e dello Swedish Centre for Architecture and Design di Stoccolma. Disegni che — spiega ancora Dal Co a «la Lettura» — «a distanza di quasi un secolo e da una regione diversa, rievocano la costante ricerca dell’umanità nei confronti del sacro all’interno dell’orizzonte spaziale della natura in cui si vive».
Metafora di un luogo di orientamento nel labirinto della vita, la cappella nel bosco rappresenta per Dal Co «anche la sfida dell’architettura che riesce a mettere ordine con le sue forme nel caos dell’universo». E in fondo anche della morte. Poco lontano dall’Isola di San Giorgio, sempre a Venezia, David Chipperfield nel 2016 si è tra l’altro cimentato con successo, alla maniera di Asplund e di Aldo Rossi, vincitore del premio Pritzker, nella costruzione di un cimitero. In particolare della nuova ala dell’ottocentesco Cimitero monumentale di San Michele che ospita Ezra Pound e Igor Stravinskij e dove un imprenditore francese del settore farmaceutico si è aggiudicato per 350 mila euro la proprietà della tomba Salviati, uno dei sepolcri extra-lusso.
La decisione del Vaticano di entrare nell’orizzonte dell’architettura e della sua Biennale, aveva spiegato monsignor Ravasi durante la presentazione ufficiale del progetto, «è il risultato di un lungo itinerario che inizia alla fine dell’Ottocento, quando si è consumato il divorzio tra arte e fede che per secoli avevano camminato insieme. Una frattura che anche in tempi recenti ha prodotto edifici sacri modesti, privi di spiritualità e di bellezza». Lo scopo delle Vatican Chapels è, dunque, anche quello di riallacciare un filo, di favorire un nuovo incontro nel segno della molteplicità e dell’interreligiosità che permettono spunti e dialogo». Un esordio che arriva, però, anche dopo l’inaspettata assenza alla Biennale 2017: «La Santa Sede preferisce non focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla Biennale d’Arte», secondo la giustificazione ufficiale.
Nel libro (pubblicato da Electa Architettura e Antiga) che illustra il padiglione e che verrà presentato durante la Biennale, monsignor Ravasi parla di «cappella come ecclesiola» e cita ironicamente Il mercante di Venezia di Shakespeare per definire la diversità tra un tempio e una cappella, una diversità che si può manifestare sia a livello di imponenza esteriore che di funzionalità liturgica: «Se il fare fosse facile come il sapere ciò che è bene fare — dice Porzia nella commedia — le cappelle sarebbero basiliche e le casupole dei poveri sarebbero palazzi di principi». Nello spazio alberato all’estremità meridionale dell’isola di San Giorgio non si dovranno allora individuare mete definite o percorsi «di salvezza», piuttosto una più universale messa in scena del peregrinare della vita. Una messa in scena ancora più libera di quella a suo tempo proposta da Asplund, che costruì la sua cappella tra gli alberi, ma pur sempre all’interno di un cimitero.