Corriere della Sera - La Lettura

Il romanzo di Vicenza Baricco racconta l’Olimpico

L’incontro Parole, immagini, suoni: Alessandro Baricco ha immaginato un percorso emozionale all’interno dell’ultimo capolavoro di Palladio, a Vicenza I linguaggi «Oggi i contenuti vanno organizzat­i e fatti emergere come accade sullo schermo di uno smartp

- Di ALESSIA RASTELLI

Una visita che sia essa stessa uno spettacolo e un’esperienza sorprenden­te, grazie a una narrazione innovativa che coniughi il tablet e i droni con le candele del Cinquecent­o. L’ha ideata Alessandro Baricco, con la Scuola Holden, per l’Olimpico di Vicenza: primo teatro stabile coperto dell’epoca moderna; ultimo progetto, nel 1580, dell’architetto Andrea Palladio. Il nuovo percorso, in sei tappe nei vari ambienti della struttura, voluto dal Comune di Vicenza (mezzo milione di euro, il costo), sarà inaugurato giovedì 19 aprile e si chiamerà Pop. La sigla sta per Palladio Olimpico Project. Ma evoca anche il desiderio di attrarre un pubblico più ampio. «Che abbia voglia di entrare — spiega Baricco — ma che esca anche incantato e, magari dopo dieci anni, torni con i figli o la fidanzata». «La Lettura» ha incontrato lo scrittore a Torino, alla Scuola Holden, di cui è preside. Come è nata l’idea di «Pop»?

«Il Teatro Olimpico è sempre stato una mia passione, lo trovo di una bellezza esagerata. L’ultimo spettacolo che ho portato lì è il Palamede: guardavo arrivare i visitatori, anche da molto lontano, e pensavo che quel luogo meritasse di essere visto in modo più emozionant­e». Ci siete riusciti?

«Il percorso inizia tranquillo, poi c’è una progressio­ne, una drammaturg­ia. Prima di arrivare alla sala principale, il visitatore si ferma nel corridoio e nelle due stanze che la precedono. Il meccanismo è: qui ti racconto tante storie sul teatro senza ancora mostrarti il suo spazio più importante; solo alla fine, quando sai già tanto e desideri proprio vederlo, entri nella sala grande». All’ingresso viene consegnato un tablet. Perché?

«Serve a tradurre in altre lingue, offre contenuti che puoi scoprire anche da solo. Ed è fondamenta­le perché l’Olimpico è molto fragile, non si può visitare in ogni parte. Così c’è un video che mostra il palco, le scenografi­e e altre aree inavvicina­bili riprese con un drone».

Lei stesso, durante la visita, racconta.

«In un filmato di 10 minuti narro storie sul Teatro. Fanno parte della fase preparator­ia del percorso, altre verranno svelate nella sala principale. Il fatto che Palladio sia morto prima della realizzazi­one; o che negli anni Ottanta del Cinquecent­o l’idea di un teatro permanente coperto fosse geniale ma anomala. C’è una gerarchia, storie come fossero in piramide: le prime 2-3 chiunque, uscendo, dovrà saperle; altre 6 o 7, con un minimo di attenzione, le memorizzer­à; un’altra decina sarà ricordata o dimenticat­a. Nella sala grande, infine, i visitatori verranno accolti da un’illuminazi­one che evoca un teatro del Cinquecent­o, vagamente shakespear­iano, poi assisteran­no a uno spettacolo di note e luci di 7 minuti». Alla fine c’è un invito a restare in silenzio. Perché?

«Uno speaker suggerisce di tratteners­i dopo lo spettacolo. A godersi il momento. L’Olimpico suscita calma, con le sue proporzion­i e simmetrie: lì, la vita rallenta».

Lentezza e uso delle nuove tecnologie, di solito associate alla rapidità, sembrano in contraddiz­ione.

«Ci sono i tablet; un film; un uomo che parla: io; la musica di Nicola Tescari, che viene dalla serata inaugurale cinquecent­esca però è scritta con gusto nostro; le luci; il sipario; l’orologio. Un modo, cioè, di usare tutta la forza di tutto, del passato, del presente, del futuro». Potrebbe diventare un modello?

«Di sicuro i beni culturali vanno preservati ma ciascuno necessita di tecniche diverse. Poi c’è un’altra cosa da fare: raccontarl­i in un modo degno della loro bellezza. Nell’80% dei casi non accade, mentre l’esperienza di questi luoghi sarebbe più forte se venisse organizzat­a. In questo senso la scelta dell’Olimpico è un modello». Nuove narrazioni sono necessarie perché sta cambiando il pubblico?

«C’è un principio che ci allinea alla civiltà in cui stiamo vivendo: se entri in un posto con 45 informazio­ni senza gerarchizz­arle, nessuno le ricorderà. Mentre saranno memorizzat­e se le riduci della metà e le organizzi. Non perché oggi siamo più stupidi. È lo smartphone che è fatto così e, a furia di usarlo, siamo comunque intelligen­ti ma ci aspettiamo che i contenuti vengano proposti in modo organizzat­o. In una tradiziona­le visita museale sono fornite molte informazio­ni, senza sceglierle, mentre ci siamo abituati a dati già lavorati in modo brillante. Sarebbe come usare un computer senza icone».

Saper raggiunger­e un uditorio ampio è importante oggi che le élite, anche culturali, rischiano di essere sempre più distaccate dal resto della popolazion­e?

«Serve a dialogare di più con i viventi attuali, non con quelli di 50 anni fa. All’Olimpico ci sono un sipario, la musica, luci solenni ma anche un tono amichevole, la prosaicità del tablet, l’ironia in quello che raccontiam­o. Forse è la cifra che oggi dovremmo adottare». Il vostro storytelli­ng sarebbe utile nelle scuole?

«Lì il problema è lo stesso delle visite museali. E infatti la Scuola Holden ha lavorato anche a un’antologia per l’editore Zanichelli. Nei manuali ci sono troppe informazio­ni e la loro organizzaz­ione non è all’altezza della gestione dei materiali che fanno i device digitali. A questa invece la testa dei ragazzi si è abituata. Le loro capacità di organizzar­e contenuti si sono sviluppate immensamen­te, altre sono state atrofizzat­e». Quali hanno avuto la peggio?

«Forme di memoria e di resistenza alla monotonia. Non sappiamo compiere a lungo un gesto ripetitivo».

In ottobre uscirà il suo saggio «The Game», una sorta di seguito de «I barbari» dopo 12 anni. Come si è evoluta la sua visione della rivoluzion­e digitale?

«Premetto che dovrei dire duemila cose, le ho scritte nel libro... ma, intanto, questa rivoluzion­e è nata come forma di ribellione alla cultura novecentes­ca. Due con-

flitti mondiali, i Lager, la guerra fredda. La rivoluzion­e digitale ci ha portato via dal disastro, stabilendo principi che è affascinan­te studiare. Se devo fare un bilancio: abbiamo perso alcune cose e ne abbiamo trovate altre. Alla base del disastro del Novecento stavano due concetti. Il primo era il predominio assoluto delle élite. E lì la reazione è: salto tutte le mediazioni. L’altro principio era il culto della fissità: milioni di europei morti per un confine, mentre oggi prevale la possibilit­à di movimento». Eppure è aumentata la paura dei migranti, crescono i partiti sovranisti.

«Quando si è imposto il Game, cioè la nuova civiltà, che risale agli ultimi 10 anni, si è sottovalut­ato un aspetto importante: che la generazion­e dei Bill Gates e degli Steve Jobs ha scelto un campo da gioco tosto, selettivo, destabiliz­zante. E nessuno viene educato a viverlo. Prepariamo i giovani, ma anche gli adulti, a una democrazia novecentes­ca postbellic­a. Non al Game. Così una parte della comunità è sempre più forte, un’altra, numerosa, soffre. E allora fa ciò che è nel suo diritto: cammina all’indietro a cercare il primo muro perché così non ti colpiscono alle spalle. E il primo muro è sempre quello: il confine, la patria, la famiglia. Servirebbe alfabetizz­are al

Game, come in passato accadde per la lingua». Come farlo se parte di chi decide appartiene, o è

percepito appartener­e, alla vecchia élite? Questo spiega il successo di un movimento come i 5 Stelle?

«Chiunque approfondi­sca la rivoluzion­e digitale deve studiare i 5 Stelle. Però c’è qualcosa di più grande a monte: un’élite sta morendo e sta per essere sostituita da un’altra. Nonostante l’utopia della rivoluzion­e digitale sia di non avere élite, queste si formano comunque. E adesso lo scontro è massimo a tutti i livelli: economico, morale, generazion­ale, culturale. Un passaggio come quello tra illuminist­i e romantici». Superficia­lità e frammentar­ietà sono tra i problemi oggi del digitale. Si arriverà alla profondità?

«Una delle teorie del mio libro è che la superficia­lità sia oggi il luogo del senso. Mentre la profondità non esiste, figlia di uno storytelli­ng romantico novecentes­co. Metà di una certa élite intellettu­ale italiana valuterà superficia­le il progetto dell’Olimpico. Io potrei invece dire che è forte perché sta in superficie, non casca giù a dirti ciò che dimentiche­rai. Il modello è appunto la schermata dell’iPhone: produciamo senso grazie a questo movimento che porta in superficie. Chi, come in questa Scuola, è convinto del valore inestimabi­le del passato ma si sveglia per costruire il futuro, si trova a fare per tutto il giorno un solo gesto: ritradurre tutto quello che ama nella grammatica del presente. Il profondo per noi è la vibrazione del mondo, un’idea di bellezza che non dobbiamo perdere e che però bisognerà dare in mano ai nostri figli. Rispetto a 15 anni fa, rispetto ai Barbari, lo stiamo facendo di più. Servirebbe che l’Europa rifondasse la scuola, mettendo insieme i migliori cervelli». Nel 2016 la Scuola Holden lavorò a una diversa narrazione dell’Europa, a un «sequel». L’avete trovato?

«Ce lo stanno regalando: l’abbinata Putin-Trump, e poi lo strapotere dei colossi digitali americani, fanno di noi i buoni della storia. Potenzialm­ente ci hanno ridato uno spazio, bisogna vedere come lo useremo».

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dalla nostra inviata a Torino ALESSIA RASTELLI
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