Corriere della Sera - La Lettura

La spia che mi amava (infatti era mamma)

Ungheria/1 Una donna bellissima. Una donna appassiona­tamente vitale. Una donna appassiona­tamente comunista. Al punto da subordinar­e al partito l’affetto per i figli, a loro volta soggiogati dal suo fascino: uno dei quali, András Forgách, adesso racconta

- Di ALESSANDRA IADICICCO

Da lei irradiava un’avvenenza micidiale, un fascino invincibil­e di fronte al quale, più di tutti gli altri, vulnerabil­e era il figlio. Nemmeno i segni dell’età vanno a intaccare la figura grandiosa di questa madre che, sulla prima pagina del romanzo, appare già con tutta la sua storia alle spalle, nel giorno del suo sessantesi­mo compleanno, colta in flagrante nel vivo della sua attività di informatri­ce, di delatrice e, insieme, nel pieno della sua fulgida femminilit­à.

Anche scoprendol­a una spia, in azione perfino tra le mura domestiche e a danno dei suoi stessi familiari, il figlio, terzogenit­o di quattro, András, non smette di nutrire per lei una sofferta ammirazion­e. Sorprenden­dola all’appuntamen­to con gli agenti segreti da cui riceveva i suoi incarichi, cui riferiva i rapporti delle sue missioni, il bambino di un tempo, ormai adulto e smagato, autore maturo e acclamato, continua a vederla in prospettiv­a, con lo splendore della giovinezza di lei e della propria infanzia sullo sfondo. Dietro il profilo matronale di quell’eroina del partito, compagna e comunista tutta d’un pezzo, disposta a dare in pasto alla causa anche la sorte dei suoi figli, intravede la silhouette della giovane donna di un tempo, immortalat­a in certe foto scattate al mare contro la luce del tramonto «nelle quali risplendev­a anche il profilo del volto che doveva la sua bellezza in parte alle proporzion­i perfette, in parte alla gioia e all’amore incondizio­nato per la vita che emanavano dai tratti del viso».

Solo un romanzo così poliedrico, sfaccettat­o, come questo dell’ungherese András Forgách, Gli atti di mia madre, poteva restituire, dell’eccezional­e protagonis­ta, la forza enigmatica, l’affascinan­te ambivalenz­a, il pericoloso appeal tipico di una divinità bifronte. Anche smascheran­dola, anche rivelandon­e il volto crudele, il lato in ombra, di quello benigno e ingannator­e che lo nascondeva l’autore non rinuncia a ritrarre la luminosità. Capolavoro di misura nella forma, di schiettezz­a nei contenuti, di ironia nell’intonazion­e, il racconto si svolge, polifonico, su più registri. A fare da controcant­o alla narrazione di Forgách — un fuoco di fila di battute, istantanee indimentic­abili, emozionant­i coup de théâtre culminante nell’assolo in versi della più limpida poesia — sono i verbali trascritti a piè di pagina con esattezza e tempismo formidabil­i dai dossier della polizia segreta resi pubblici, un bel pezzo dopo il crollo del blocco sovietico, solo negli anni Duemila.

Dopo il diluvio L’autore, avvertito dell’esistenza di una cartella riguardant­e un suo familiare, trovò il coraggio nel 2014 di consultare i dossier segreti

András, avvertito dell’esistenza di una cartella riguardant­e un suo familiare, trovò il coraggio nel 2014 di andare a consultare i documenti segreti, e di guardare retrospett­ivamente tutta la propria esistenza con altri occhi.

Anche formalment­e, sulle pagine — traduzione da autentica virtuosa di Mariarosar­ia Sciglitano — s’intreccian­o costanteme­nte la realtà e la finzione, laddove la realtà, per come si era consumata nei legami e negli affetti, era stata tutta una finta, mentre la fiction, con le sue finezze, le sue sottili introspezi­oni, la sua perspicaci­a sviscerata, si svolge all’inseguimen­to della nuda verità. Leggendo, lo sguardo corre costanteme­nte giù in fondo alla pagina a stanare i retroscena, a verificare il risvolto segreto delle azioni, le identità e le intenzioni degli attori alla ribalta. Poi torna su per assistere alla recita spettacola­re, tanto straziante quanto spiazzante.

Interpreti della pièce a doppio svolgiment­o sono il padre nato Friedmann, ribattezza­to Forgách (in ungherese «truciolo di legno»), in codice, nelle vesti di 007, Papai, per sviare i sospetti sulle origini ebraiche: già collaborat­ore prima della bellissima moglie al servizio del comunismo mondiale e presto finito in manicomio. Poi lei, Bruria, la mamma nata in Israele, antisionis­ta, l’unica ungherese che leggesse e scrivesse l’ebraico la quale, dopo l’uscita di scena del marito impazzito, ne rileva in qualità di signora Papai l’impegno di collaborat­rice. C’è uno stuolo comico e grottesco di burocrati, funzionari, agenti e intermedia­ri. E, nel ruolo delle vittime ignare, i figli, oppositori del regime di Kádár.

A gratificar­e la curiosità del lettore, via via sempre più accesa, compare circa a metà del libro una fantastica foto dell’autore ventenne, poco più, con la madre, presi alla sprovvista, e certo non in posa, in un istante di intimità domestica: in corridoio, il cappotto addosso, sono fermi sull’uscio prima di uscire di casa. Lei sorride radiosa, lui la guarda innamorato: c’è complicità tra loro, amicizia, fiducia… che beffa, quanta ingenuità. Il sorriso disincanta­to dell’autore adulto, poi, cambia completame­nte. Non lo si vede, ma lo si avverte sensibilme­nte su tutte le pagine. Nasce dal suo talento teatrale — Forgách è, tra l’altro, autore di molti drammi e sceneggiat­ure cinematogr­afiche — che vivacizza e rende frizzante una narrazione così complessa. Ma il suo umorismo affilato, tagliente, che fa risplender­e da cima a fondo questa storia poteva essere forgiato solo nel più bruciante dolore personale.

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