Corriere della Sera - La Lettura
La spia che mi amava (infatti era mamma)
Ungheria/1 Una donna bellissima. Una donna appassionatamente vitale. Una donna appassionatamente comunista. Al punto da subordinare al partito l’affetto per i figli, a loro volta soggiogati dal suo fascino: uno dei quali, András Forgách, adesso racconta
Da lei irradiava un’avvenenza micidiale, un fascino invincibile di fronte al quale, più di tutti gli altri, vulnerabile era il figlio. Nemmeno i segni dell’età vanno a intaccare la figura grandiosa di questa madre che, sulla prima pagina del romanzo, appare già con tutta la sua storia alle spalle, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, colta in flagrante nel vivo della sua attività di informatrice, di delatrice e, insieme, nel pieno della sua fulgida femminilità.
Anche scoprendola una spia, in azione perfino tra le mura domestiche e a danno dei suoi stessi familiari, il figlio, terzogenito di quattro, András, non smette di nutrire per lei una sofferta ammirazione. Sorprendendola all’appuntamento con gli agenti segreti da cui riceveva i suoi incarichi, cui riferiva i rapporti delle sue missioni, il bambino di un tempo, ormai adulto e smagato, autore maturo e acclamato, continua a vederla in prospettiva, con lo splendore della giovinezza di lei e della propria infanzia sullo sfondo. Dietro il profilo matronale di quell’eroina del partito, compagna e comunista tutta d’un pezzo, disposta a dare in pasto alla causa anche la sorte dei suoi figli, intravede la silhouette della giovane donna di un tempo, immortalata in certe foto scattate al mare contro la luce del tramonto «nelle quali risplendeva anche il profilo del volto che doveva la sua bellezza in parte alle proporzioni perfette, in parte alla gioia e all’amore incondizionato per la vita che emanavano dai tratti del viso».
Solo un romanzo così poliedrico, sfaccettato, come questo dell’ungherese András Forgách, Gli atti di mia madre, poteva restituire, dell’eccezionale protagonista, la forza enigmatica, l’affascinante ambivalenza, il pericoloso appeal tipico di una divinità bifronte. Anche smascherandola, anche rivelandone il volto crudele, il lato in ombra, di quello benigno e ingannatore che lo nascondeva l’autore non rinuncia a ritrarre la luminosità. Capolavoro di misura nella forma, di schiettezza nei contenuti, di ironia nell’intonazione, il racconto si svolge, polifonico, su più registri. A fare da controcanto alla narrazione di Forgách — un fuoco di fila di battute, istantanee indimenticabili, emozionanti coup de théâtre culminante nell’assolo in versi della più limpida poesia — sono i verbali trascritti a piè di pagina con esattezza e tempismo formidabili dai dossier della polizia segreta resi pubblici, un bel pezzo dopo il crollo del blocco sovietico, solo negli anni Duemila.
Dopo il diluvio L’autore, avvertito dell’esistenza di una cartella riguardante un suo familiare, trovò il coraggio nel 2014 di consultare i dossier segreti
András, avvertito dell’esistenza di una cartella riguardante un suo familiare, trovò il coraggio nel 2014 di andare a consultare i documenti segreti, e di guardare retrospettivamente tutta la propria esistenza con altri occhi.
Anche formalmente, sulle pagine — traduzione da autentica virtuosa di Mariarosaria Sciglitano — s’intrecciano costantemente la realtà e la finzione, laddove la realtà, per come si era consumata nei legami e negli affetti, era stata tutta una finta, mentre la fiction, con le sue finezze, le sue sottili introspezioni, la sua perspicacia sviscerata, si svolge all’inseguimento della nuda verità. Leggendo, lo sguardo corre costantemente giù in fondo alla pagina a stanare i retroscena, a verificare il risvolto segreto delle azioni, le identità e le intenzioni degli attori alla ribalta. Poi torna su per assistere alla recita spettacolare, tanto straziante quanto spiazzante.
Interpreti della pièce a doppio svolgimento sono il padre nato Friedmann, ribattezzato Forgách (in ungherese «truciolo di legno»), in codice, nelle vesti di 007, Papai, per sviare i sospetti sulle origini ebraiche: già collaboratore prima della bellissima moglie al servizio del comunismo mondiale e presto finito in manicomio. Poi lei, Bruria, la mamma nata in Israele, antisionista, l’unica ungherese che leggesse e scrivesse l’ebraico la quale, dopo l’uscita di scena del marito impazzito, ne rileva in qualità di signora Papai l’impegno di collaboratrice. C’è uno stuolo comico e grottesco di burocrati, funzionari, agenti e intermediari. E, nel ruolo delle vittime ignare, i figli, oppositori del regime di Kádár.
A gratificare la curiosità del lettore, via via sempre più accesa, compare circa a metà del libro una fantastica foto dell’autore ventenne, poco più, con la madre, presi alla sprovvista, e certo non in posa, in un istante di intimità domestica: in corridoio, il cappotto addosso, sono fermi sull’uscio prima di uscire di casa. Lei sorride radiosa, lui la guarda innamorato: c’è complicità tra loro, amicizia, fiducia… che beffa, quanta ingenuità. Il sorriso disincantato dell’autore adulto, poi, cambia completamente. Non lo si vede, ma lo si avverte sensibilmente su tutte le pagine. Nasce dal suo talento teatrale — Forgách è, tra l’altro, autore di molti drammi e sceneggiature cinematografiche — che vivacizza e rende frizzante una narrazione così complessa. Ma il suo umorismo affilato, tagliente, che fa risplendere da cima a fondo questa storia poteva essere forgiato solo nel più bruciante dolore personale.