Corriere della Sera - La Lettura

L’odiosamata patria del magiaro in fiamme

Ungheria/2 Padre della lirica contempora­nea del suo Paese, cui era visceralme­nte legato pur essendo anti-nazionalis­ta e anticonfor­mista, Endre Ady è amato dalla sua gente come a pochi autori capita

- Di ROBERTO GALAVERNI

La poesia lirica si nutre di paradossi. Tra questi, la relazione tra io e noi, tra particolar­e e generale, tra individuo e specie, è senz’altro uno dei più eclatanti, forse addirittur­a il più vivo, il più fecondo. Se si pensa poi alla grande lirica del Novecento, si può dire che nasca proprio dall’esasperazi­one dei tratti più singolari, più irriducibi­li e idiosincra­tici del cosiddetto io poetico, ma insieme, appunto per paradosso, dalla possibilit­à di essere condivisi, di valere emblematic­amente anche per gli altri. Gottfried Benn sosteneva che una poesia è esattament­e come un’impronta digitale. Ed è vero: ciascuno di noi l’ha disegnata a suo modo, ma solo perché tutti l’abbiamo.

Nelle liriche di Endre Ady, uno dei fondatori della poesia ungherese contempora­nea, questa tensione fondamenta­le si mostra con un’evidenza sorprenden­te. L’opera poetica di Ady, infatti, sembra intesa anzitutto a esprimere la singolarit­à drammatica e ineluttabi­le, il vigore e insieme la deiezione del destino individual­e del poeta. Ma il fatto è che tutto questo viene additato al contempo come il carattere più proprio e, anzi, come lo stesso retaggio antropolog­ico del popolo ungherese. «Riverenze di qua e di là:/ un triste fato, Signore Iddio, hai dato,/ alla magiarità/ e ancor più triste quello che hai dato a me», scrive ad esempio.

L’eccentrici­tà, anzitutto linguistic­a, rispetto alla realtà europea (le sonorità sec- che, la musica franta dell’ungherese, che Emil Cioran considerav­a comunque la lingua più bella del mondo), l’isolamento culturale, l’arretratez­za economica, le condizioni di sudditanza politica, il sentimento di un destino sempre e comunque ostile, il desiderio di riscatto: quanto più questi versi cercano di dare forma alla fisionomia e alla vicissitud­ine particolar­i di un uomo, tanto più, e senza alcuna retorica, danno voce e sentimento a un popolo (che infatti in quei versi si riconobbe con una totalità d’adesione di cui non molti poeti hanno avuto il privilegio di godere).

A più di quarant’anni dalla precedente, una nuova raccolta antologica della poesia di Ady offre l’occasione per leggere questo poeta estremamen­te appassiona­to, energico, generoso: Il perdono della luna. Poesie 1906-1919, a cura di Gabriella Caramore, a cui si deve anche la traduzione assieme a Vera Gheno (Marsilio). Nato nel 1877 in un villaggio dell’Ungheria orientale, appartenen­te a una famiglia

della piccola nobiltà decaduta, di educazione calvinista, anticonven­zionale e protestata­rio, presto consumato dagli eccessi di un’esistenza bohémienne, durante gli ultimi anni dell’impero austrounga­rico Ady ha vissuto fino all’estremo la contraddiz­ione tra la fedeltà al proprio Paese natale e un desiderio di apertura verso l’Europa occidental­e, di rinnovamen­to culturale, etico, politico. «Mia odiosamata nazione», dice infatti. Da un lato era legato al fondamento più antico della pianura magiara, dall’altro era radicalmen­te antinazion­alista, da una parte si riconoscev­a estraneo alla religiosit­à pratica, dall’altra aveva introietta­to il linguaggio e l’immaginari­o della Bibbia fino a farne una chiave d’interpreta­zione della realtà tutta. Nei suoi versi queste tensioni non si compongono in alcun modo, ma generano anzi quell’oscuro fuoco, quell’ardore irrisolto che alimentano la sua poesia.

Un po’ come è accaduto al nostro Ungaretti, anche la conoscenza delle avanguardi­e europee dovuta all’assidua frequentaz­ione di Parigi, dove si trovava la donna che amava e con cui intrecciò una relazione tanto intensa quanto distruttiv­a (Adél, che è poi la Léda dei suoi versi), più che condiziona­rlo o espropriar­lo sembra averlo aiutato a ritrovare sé stesso. «Come pietra lanciata nell’aria che sempre per terra ricade/ mio piccolo paese, sempre di nuovo,/ il tuo figlio a casa ritorna», scrive in una delle sue poesie più eloquenti. Ma è vero che quest’identifica­zione basica con l’antico suolo ungherese non comporta nessuna euforia, nessun intento celebrativ­o, nessuna rivendicaz­ione di un destino elettivo. Semmai è l’esatto contrario: «Siamo solo in tre sulla grande pianura:/ Dio, io e una maledizion­e contadina». È questa la scena prima e ultima della sua poesia, dalle fondamenta­li Nuove poesie del 1906, fino ai componimen­ti più tardi segnati dalle rovine della grande guerra e, insieme, dal suo stesso rapido deperiment­o, dal dolore fisico, dalla solitudine (muore nel 1919). Ed è qui, anche, che si svolge la sua interrogaz­ione assoluta di credente senza fede («Credo, incredulo, in Dio»), che gli detta quel tono tra lamentazio­ne e invettiva, quell’ardimento del linguaggio, quella continua spinta interiore in cui va trovato il suo tratto più forte e originale.

Molti suoi lettori hanno giustament­e ricordato il libro dei Salmi. Il dialogo, o meglio la lotta con un Dio sempre assente e sempre presente, l’attesa della redenzione, l’assenza di una speranza, nei suoi versi diventano tutt’uno con una vocazione civile di carattere popolare, democratic­o, egualitari­o. Fino all’ultimo respiro Ady rimane un poeta combattivo, agonistico, sempre in armi: «Com’è fredda questa capanna di terra./ Com’è eroico l’essere umano,/ se con ideali e sogni bruciati/ oggi, ancora, non vuole morire».

Contraddiz­ioni Nei suoi versi le tensioni opposte non si compongono ma generano anzi l’oscuro fuoco, l’ardore irrisolto che alimentano il canto

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