Corriere della Sera - La Lettura
L’odiosamata patria del magiaro in fiamme
Ungheria/2 Padre della lirica contemporanea del suo Paese, cui era visceralmente legato pur essendo anti-nazionalista e anticonformista, Endre Ady è amato dalla sua gente come a pochi autori capita
La poesia lirica si nutre di paradossi. Tra questi, la relazione tra io e noi, tra particolare e generale, tra individuo e specie, è senz’altro uno dei più eclatanti, forse addirittura il più vivo, il più fecondo. Se si pensa poi alla grande lirica del Novecento, si può dire che nasca proprio dall’esasperazione dei tratti più singolari, più irriducibili e idiosincratici del cosiddetto io poetico, ma insieme, appunto per paradosso, dalla possibilità di essere condivisi, di valere emblematicamente anche per gli altri. Gottfried Benn sosteneva che una poesia è esattamente come un’impronta digitale. Ed è vero: ciascuno di noi l’ha disegnata a suo modo, ma solo perché tutti l’abbiamo.
Nelle liriche di Endre Ady, uno dei fondatori della poesia ungherese contemporanea, questa tensione fondamentale si mostra con un’evidenza sorprendente. L’opera poetica di Ady, infatti, sembra intesa anzitutto a esprimere la singolarità drammatica e ineluttabile, il vigore e insieme la deiezione del destino individuale del poeta. Ma il fatto è che tutto questo viene additato al contempo come il carattere più proprio e, anzi, come lo stesso retaggio antropologico del popolo ungherese. «Riverenze di qua e di là:/ un triste fato, Signore Iddio, hai dato,/ alla magiarità/ e ancor più triste quello che hai dato a me», scrive ad esempio.
L’eccentricità, anzitutto linguistica, rispetto alla realtà europea (le sonorità sec- che, la musica franta dell’ungherese, che Emil Cioran considerava comunque la lingua più bella del mondo), l’isolamento culturale, l’arretratezza economica, le condizioni di sudditanza politica, il sentimento di un destino sempre e comunque ostile, il desiderio di riscatto: quanto più questi versi cercano di dare forma alla fisionomia e alla vicissitudine particolari di un uomo, tanto più, e senza alcuna retorica, danno voce e sentimento a un popolo (che infatti in quei versi si riconobbe con una totalità d’adesione di cui non molti poeti hanno avuto il privilegio di godere).
A più di quarant’anni dalla precedente, una nuova raccolta antologica della poesia di Ady offre l’occasione per leggere questo poeta estremamente appassionato, energico, generoso: Il perdono della luna. Poesie 1906-1919, a cura di Gabriella Caramore, a cui si deve anche la traduzione assieme a Vera Gheno (Marsilio). Nato nel 1877 in un villaggio dell’Ungheria orientale, appartenente a una famiglia
della piccola nobiltà decaduta, di educazione calvinista, anticonvenzionale e protestatario, presto consumato dagli eccessi di un’esistenza bohémienne, durante gli ultimi anni dell’impero austroungarico Ady ha vissuto fino all’estremo la contraddizione tra la fedeltà al proprio Paese natale e un desiderio di apertura verso l’Europa occidentale, di rinnovamento culturale, etico, politico. «Mia odiosamata nazione», dice infatti. Da un lato era legato al fondamento più antico della pianura magiara, dall’altro era radicalmente antinazionalista, da una parte si riconosceva estraneo alla religiosità pratica, dall’altra aveva introiettato il linguaggio e l’immaginario della Bibbia fino a farne una chiave d’interpretazione della realtà tutta. Nei suoi versi queste tensioni non si compongono in alcun modo, ma generano anzi quell’oscuro fuoco, quell’ardore irrisolto che alimentano la sua poesia.
Un po’ come è accaduto al nostro Ungaretti, anche la conoscenza delle avanguardie europee dovuta all’assidua frequentazione di Parigi, dove si trovava la donna che amava e con cui intrecciò una relazione tanto intensa quanto distruttiva (Adél, che è poi la Léda dei suoi versi), più che condizionarlo o espropriarlo sembra averlo aiutato a ritrovare sé stesso. «Come pietra lanciata nell’aria che sempre per terra ricade/ mio piccolo paese, sempre di nuovo,/ il tuo figlio a casa ritorna», scrive in una delle sue poesie più eloquenti. Ma è vero che quest’identificazione basica con l’antico suolo ungherese non comporta nessuna euforia, nessun intento celebrativo, nessuna rivendicazione di un destino elettivo. Semmai è l’esatto contrario: «Siamo solo in tre sulla grande pianura:/ Dio, io e una maledizione contadina». È questa la scena prima e ultima della sua poesia, dalle fondamentali Nuove poesie del 1906, fino ai componimenti più tardi segnati dalle rovine della grande guerra e, insieme, dal suo stesso rapido deperimento, dal dolore fisico, dalla solitudine (muore nel 1919). Ed è qui, anche, che si svolge la sua interrogazione assoluta di credente senza fede («Credo, incredulo, in Dio»), che gli detta quel tono tra lamentazione e invettiva, quell’ardimento del linguaggio, quella continua spinta interiore in cui va trovato il suo tratto più forte e originale.
Molti suoi lettori hanno giustamente ricordato il libro dei Salmi. Il dialogo, o meglio la lotta con un Dio sempre assente e sempre presente, l’attesa della redenzione, l’assenza di una speranza, nei suoi versi diventano tutt’uno con una vocazione civile di carattere popolare, democratico, egualitario. Fino all’ultimo respiro Ady rimane un poeta combattivo, agonistico, sempre in armi: «Com’è fredda questa capanna di terra./ Com’è eroico l’essere umano,/ se con ideali e sogni bruciati/ oggi, ancora, non vuole morire».
Contraddizioni Nei suoi versi le tensioni opposte non si compongono ma generano anzi l’oscuro fuoco, l’ardore irrisolto che alimentano il canto