Corriere della Sera - La Lettura
Rasmussen La saggezza dei ghiacci
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«Nessuna gioia supera quella di costruire igloo, se non forse quella di entrarci, quando le lampade a grasso sono accese e i riflessi della luce scintillano sulla cupola bianca del tetto». In queste parole c’è praticamente tutto quell’uomo straordinario che è stato Knud Rasmussen (1879-1933). Il leggendario esploratore artico, dotato di coraggio e resistenza eccezionali, fu anche un etnologo di prima qualità, capace di raccogliere notizie e reperti della cultura eschimese come mai nessuno aveva fatto prima di lui. Potrebbe bastare e avanzare per farne l’oggetto di una duratura ammirazione. Ma bisogna aggiungere che Rasmussen fu anche un grande scrittore. Le sue avventure tra i ghiacci sono indimenticabili grazie al fascino di una prosa nella quale convivono l’esattezza e l’incanto, la spavalderia del grande avventuriero e la saggezza di chi sa imparare la lezione giusta da ogni traversia.
Danese ma cresciuto in Groenlandia, Rasmussen aveva imparato fin da bambino a sopravvivere in condizioni di clima proibitive, a cacciare foche e trichechi sulla banchisa, a manovrare la slitta trainata dai cani, a parlare la lingua degli inuit. Un po’ di sangue eschimese gli veniva dalla nonna materna, e la capacità di ispirare un’immediata fiducia agli uomini e alle donne con i quali veniva in contatto durante i suoi viaggi dipende anche dal saper condividere in tutti gli aspetti l’esistenza materiale e la vita spirituale che studiava in modo così instancabile.
Il momento di massima intensità di questa vita in tutti i sensi inimitabile fu sicuramente la lunga spedizione che, tra il 1921 e il 1924, portò Rasmussen e i suoi compagni dalla Groenlandia all’Alaska, lungo tutte le coste del Canada artico. È il «grande viaggio in slitta», come recita il titolo di un libro che è un classico della letteratura danese, pubblicato nel 1932 e destinato al grande pubblico. Più specialistica e dettagliata era la lunga relazione in due volumi che Rasmussen aveva dato alle stampe al ritorno dall’impresa, tra il 1925 e il 1926. È da quest’opera maggiore che Bruno Berni ha ricavato la preziosa antologia intitolata Aua.
Aua è il nome di uno sciamano già avanti con gli anni incontrato da Rasmussen agli inizi nel 1922. La prima volta che l’esploratore vede quell’«ometto con una grande barba, completamente ghiacciato in volto», che gli rivolge la rituale formula di benvenuto per gli ospiti, non può immaginare il valore di quell’incontro fortuito. Aua è il più significativo tra i testimoni di una concezione religiosa del mondo di straordinaria ricchezza e bellezza, rimasta praticamente intatta per millenni. Ma l’amicizia che nasce rapidamente fra lo sciamano e l’esploratore non è solo una circostanza fortunata e un’occasione di conoscenza da sfruttare al meglio. Ad amplificare il suo valore drammatico c’è il fatto che ormai, negli anni Venti del Novecento, la civiltà di Aua, insidiata dall’uomo bianco, si sta dissolvendo con la veloci- tà della neve al sole. Volge al termine lo splendido isolamento che ha consentito il perpetuarsi di miti, leggende, tabù in un’area geografica vastissima e incontaminata. Lo stesso Aua sta per convertirsi al cristianesimo. Ma nel corso delle sue visite, mentre cresce l’intimità con lo sciamano e sua moglie, Rasmussen si rende conto che questo cambiamento è propizio, perché Aua confida con più facilità al suo ospite segreti spirituali che, prima di convertirsi alla nuova religione, non avrebbe osato trasmettere a un profano.
Ne viene fuori una specie di vangelo, di inestimabile valore spirituale. Quello di Aua è un mondo aspro, e la sapienza di cui è il custode si è perpetuata in condizioni di vita talmente difficili, com’è facile immaginare, da sembrare impossibili. Incombono sull’esistenza quotidiana tempeste, carestia, malattie, incidenti di ogni tipo. L’eschimese non è un filosofo, non ha tempo di «spiegare» il mondo. I suoi miti e i suoi riti, semmai, sono parte attiva di uno straordinario processo di adattamento, come le tecniche di caccia, gli usi alimentari, la preparazione dei vestiti, gli innumerevoli divieti e le prescrizioni che regolano ogni epoca e ogni contingenza della vita.
«Tutti i nostri usi — confida Aua in un momento di particolare lucidità — vengono dalla vita e vanno alla vita, noi non spieghiamo niente, non crediamo niente». È la «paura» il motore della fede, la chiave d’accesso alle forze che risiedono nell’invisi-
bile: le anime dei morti, gli spiriti degli animali, le divinità come la «regina degli animali» che, nella sua casa in fondo al mare, punisce le infrazioni commesse dagli uomini privandoli delle prede da cacciare. In questa società, lo sciamano ha un ruolo centrale perché sa muoversi tra i diversi piani della realtà, viaggia tra il qui e l’altrove impetrando il perdono e la protezione delle forze occulte che tengono in pugno i destini dei mortali.
Ogni vero sciamano possiede una luce all’interno del proprio corpo, un fuoco che gli permette di vedere ciò che è nascosto, di orientare il suo destino e quello della sua comunità. È davvero un miracolo, riflette a un certo punto Rasmussen, che in un’epoca ormai «rapidissima» ci si possa imbattere in uomini che, come Aua e sua moglie Orulo, «sembrano appena usciti dalla mano della natura». Ma era già molto tardi.
In una pagina famosa, non presente in quest’antologia, Rasmussen racconta il suo stupore e la sua delusione quando, arrivato in un insediamento che credeva ancora isolato, sente all’improvviso un suono che non si sarebbe mai aspettato in quelle solitudini artiche. È un’aria di Caruso che esce da un grammofono appena acquistato dal capo della tribù. La voce del grande cantante è come un allarme, che pungola il ricercatore avvertendolo che tutto ciò che vede sta per sparire. Bisogna raccogliere le tracce di quella stupenda civiltà — oggetti e racconti — prima che sia troppo tardi.
Dal punto di vista scientifico, esistono metodi ben precisi per questo tipo di imprese, e Rasmussen, come i suoi collaboratori, non ha nulla da invidiare ai maestri dell’etnologia. Ma non è questo il punto essenziale. Bisogna essere capaci di stabilire una relazione umana: praticare l’arte del dare e quella del ricevere, aspettare il momento giusto per porre le domande, e porre quelle giuste. Se i libri di Rasmussen, al di là del loro rilievo scientifico, sono così emozionanti, è perché non vengono mai omesse le circostanze psicologiche e affettive all’interno delle quali avviene ogni autentica trasmissione del sapere. Più di ogni cosa della vita, Rasmussen amava quel momento della giornata in cui gli uomini, dopo una dura giornata di caccia, si riuniscono nel tepore dei loro igloo, stesi sulle pelli di renna. Mentre la cena cuoce nelle pentole e la fiamma delle lampade proietta le sue ombre sul soffitto, il piacere fisico e quello del racconto diventano parte della stessa felicità di stare al mondo.
Come gli eroi di Omero, gli inuit di Rasmussen evocano le storie degli dèi e degli antenati mentre la notte polare trascorre lentamente, e l’allegria pervade i corpi finalmente sazi. Conoscere, non smette di ricordarci Rasmussen, significa sempre meritarsi ciò che si conosce, essere degni dell’amicizia di chi ha qualcosa da insegnarci, ascoltare le vite degli altri come fossero il più prezioso dei doni della sorte.