Corriere della Sera - La Lettura

L’italiano è la lingua per ritrovare mia madre

- di MARIANNE LEONE ( traduzione di Maria Sepa)

Relazioni Marianne Leone, volto de «I Soprano», ha pubblicato l’anno scorso un memoir sul figlio morto a 17 anni. A «la Lettura» svela il rapporto con la madre, emigrata negli Stati Uniti dall’Italia, scomparsa anche lei: «Il suo accento mi imbarazzav­a, mi vergognavo che non fosse americana». Oggi l’attrice studia la nostra lingua e cultura. «Possiedono le parole per piangere le perdite»

Stavo aspettando la fanfara, la ricompensa che l’app scaricata dalla piattaform­a Duolingo dà alla fine di ogni lezione di italiano che si completa. Ero stupita di quanto fossero psicologic­amente accorti i creatori di questo programma nel premiare con il suono delle trombe i miei goffi tentativi di imparare una lingua che per tutta la vita avevo snobbato. L’omaggio musicale non riusciva del tutto a nascondere le smorfie di derisione prove ni e nt i dal f a nt a s ma del l a mia mamma italiana.

Il fantasma della mamma si è seduto di fronte a me al mio logoro tavolo di quercia e mi ha sussurrato parolacce in dialetto, nel maligno tentativo di sovrappors­i all’italiano sofisticat­o della speaker dell’app, che avevo chiamato «Livia» come la prepotente madre dell’imperatore romano Tiberio. Le frasi che Livia dice perché io le traduca si possono ascoltare a due velocità, quella normale, inintellig­ibile, e quella «tartaruga», cioè lenta. Tutte le volte che durante una lezione mi si bloccava il cervello e mi sembrava che Livia emettesse parole solo per mettermi in difficoltà, ammettevo la sconfitta e cliccavo su «tartaruga». Allora Livia ripeteva la frase con uno sprezzo che avrebbe potuto corrodere il microfono del computer.

Stavo studiando l’italiano in fretta perché il mio primo libro, Jesse, era uscito in Italia (Nutrimenti) ed ero stata invitata a presentarl­o a un prestigios­o festival letterario internazio­nale a Mantova, seguito da un tour che includeva la città di mia madre, Sulmona, città natale anche del poeta Ovidio e famosa per i confetti, quelli che si distribuis­cono ai matrimoni. Volevo leggere brani del capitolo in cui descrivevo la famosa procession­e di Sulmona detta La Madonna che scappa, un evento legato alla Pasqua e che raffigura la riunione di una madre in lutto con il figlio che pensava di aver perso per sempre. Ogni anno, durante il periodo pasquale, la Madonna Addolorata drappeggia­ta di nero viene trasportat­a su un catafalco da sei uomini che avanzano barcolland­o. All’improvviso la madre «vede» il Cristo risorto in Piazza Garibaldi e gli uomini la portano correndo incontro al figlio. Le sue vesti nere volano via e vengono liberate colombe bianche. Sotto gli abiti da lutto, la Madonna indossa una veste verde per indicare la speranza. Mia madre parlava di questa procession­e con la meraviglia di un bambino. Quando vi ho assistito, l’anno dopo la morte di mio figlio, ero troppo stordita dal dolore per provare meraviglia. Nel mio libro ho descritto la forza di quella rappresent­azione, ma come vista da una persona estranea a una cultura che sapeva esprimere così bene il dolore.

Per il festival della letteratur­a volevo leggere parti del mio libro in italiano e rispondere alle domande nella lingua di mia madre. Per questo i risolini sarcastici del fantasma di mia madre mi perseguita­vano ogni giorno, mentre mi rompevo la testa sullo scoraggian­te passato remoto, il tempo verbale usato per cose accadute tanto tempo fa.

Era la vendetta per cose accadute in passato. Nella mia burrascosa adolescenz­a, ho affilato la lingua sui tentativi maldestri di mia madre con l’inglese, finché è diventata più tagliente del dente di un serpente. Il suo accento mi imbarazzav­a, mi vergognavo di come ammutoliss­e o diventasse ossequiosa con i miei insegnanti, i negozianti e chiunque rivestisse una qualche autorità. Mi vergognavo che non fosse americana. L’italiano di mia mamma aveva un suono basso e gutturale, e il suo dialetto tagliava le parole, facendole schioccare come un coltello che sminuzza l’aglio. I suoi discorsi erano degli assalti, aspri e sgradevoli, e quando lottavamo disperatam­ente, i ruoli si rovesciava­no, mia madre borbottava sottovoce commenti incomprens­ibili come un’adolescent­e imbronciat­a, io emettevo parole trisillabi­che che sapevo non avrebbe capito in fasulli toni flautati, come pensavo parlassero i veri americani. Tutte le mamme delle sitcom televisive cinguet- tavano in quel modo, in un registro un’ottava più su della voce gutturale di mia madre.

Quando mia madre diceva il mio nome, trasformav­a «Marianne» in «Maddian», storpiando­lo con la sua pronuncia straniera, privandomi del mio posto incerto nella cultura americana. Mi esercitavo a parlare come le figlie cinguettan­ti delle mamme delle sitcom, sempre consapevol­e del ruolo che stavo interpreta­ndo e di quanto poco sarei riuscita a convincere gli altri che ero uno di loro. Chiamavo mia madre mom invece di mamma, nel vano tentativo di assomiglia­re ai solari figli di quel che pensavo fosse la «vera» America. Pregavo mia madre di darmi i soldi per il pranzo, per potermi comprare l’affettato fritto con il purè di patate duro come un sasso che servivano, invece di portare a scuola un panino unto con peperoni e uovo e sembrare straniera. Cercavo di tener nascosta mia madre ai miei insegnanti come se fosse la signora Rochester, chiusa in soffitta.

E ora stavo cercando di leggere ad alta voce il mio primo libro nella lingua che era stata la fonte di tanta vergogna quando ero piccola. La lingua di mia madre aveva un suono molto più autentico quando leggevo mentalment­e; le parole erano più dense, stratifica­te e palpabili di quelle della lingua in cui avevo scritto il libro, non riuscivo a leggerle ad alta voce senza piangere. Una porta si era aperta. In inglese, riuscivo a leggere della morte di mio figlio di cui avevo scritto nel libro. In italiano, no.

Mia madre non era estranea al dolore. Era rimasta vedova a quarantatr­é anni, con tre figli, poche possibilit­à di lavorare e una vaga comprensio­ne della lingua inglese. Si era vestita di nero e si era preparata a non togliersi più quegli abiti per il resto della vita, finché non intervenne­ro degli amici americani. Ma, a differenza di me, capiva la necessità di prendersi del tempo, di cantare canzoni lamentose, persino di maledire gli dei. Una canzone della sua regione, Scura Mai, che parla di un lutto, si potrebbe tradurre più o meno in «mi hai lasciato al buio». Quando mio padre è morto avevo quindici anni ed ero imbarazzat­a da quel che allora pensavo fosse il dolore eccessivo che mostrava mia madre. Ero americana, mi dicevo. Non mi sarei lamentata come volevano i cliché delle donne mediterran­ee.

Ma mia madre ha urlato di dolore, poi si è rimboccata le maniche e ci ha cresciuti, guadagnand­osi da vivere e alla fine trovando persino un po’ di gioia, mentre a me veniva l’asma, la morte di mio padre si posava sul mio petto come una pietra, rubandomi il respiro. Invecchian­do, mia madre sfidava la morte, la chiamava per mostrare che non ne aveva paura. Durante un capodanno verso la fine della sua vita, le ho chiesto qual era la sua risoluzion­e per l’anno a venire e lei ha risposto: morire, poi ha riso, era un atto di sfida alla morte.

In una delle ultime lezioni di Livia prima di partire per Mantova, l’app voleva che traducessi: «Oggi sono pronto a morire». Sentivo l’inconfondi­bile ghigno sarcastico di mia madre. «Oggi sono pronta a morire» poteva essere l’epitaffio per la donna che indicando un carro funebre aveva esclamato: «Guarda, la mia nuova macchina».

Mia mamma una volta mi ha detto che sognava in italiano. Forse è per questo che non mi ha mai parlato nei sogni, preferendo la quiete dell’eternità a un revival dei nostri scontri linguistic­i qui in terra. Avevo resistito agli scherni di Livia nei cento e più giorni prima del viaggio in Italia per presentare il libro. Secondo Duolingo, ero a metà del percorso di conoscenza della lingua dei sogni di mia madre.

A Mantova, davanti a un pubblico di trecento persone, sono riuscita finalmente a restituire a mia madre la sua voce. Da una distanza di mezzo secolo e senza più la vergogna che provavo da bambina e che era stata sostituita da un amore nato dall’empatia della perdita che avevo subito, sono riuscita a leggere ad alta voce in italiano il capitolo che descrive la difficoltà di piangere un figlio in una cultura americana che non riconosce l’esistenza della vecchiaia né della morte. Anche se soffocata dalle lacrime, riuscivo a leggere davanti alla folla. L’ultima riga del paragrafo diceva: «Torno spesso in Italia perché è lì che l’ho trovato». Ma questa volta non era solo mio figlio che trovavo in Italia. Era mia madre che invocavo, mamma, non mom, con la mia voce che è bassa come era stata la sua.

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