Corriere della Sera - La Lettura

La lingua di tufo e sangue grida del ventre di Napoli

Maestri La storia del teatro partenopeo ha i suoi grandi. E due capolavori su tutti: «Filumena Marturano» e «La gatta Cenerentol­a». Anzi no, sono tre. Adesso c’è anche «La cupa» di Mimmo Borrelli. Ecco perché

- da Napoli FRANCO CORDELLI

Mimmo Borrelli lo conobbi nell’ormai remoto 2011, in occasione di un convegno dedicato alla drammaturg­ia italiana d’inizio secolo. Non avevo visto nessuno spettacolo suo, di lui sapevo che da Franco Quadri era considerat­o il più bravo di tutti. Ma Borrelli era un drammaturg­o? O meglio: era soltanto un drammaturg­o e non anche un attore e un regista, insomma un autore? Sta di fatto che l’ho visto all’opera solo ora, o solo ora è come se l’avessi visto per la prima volta. Posso non dire che Quadri aveva ragione? E posso non dire che La

cupa, che è in scena al San Ferdinando di Napoli, è già nella storia?

Dinastie

La storia del teatro napoletano, ossia del teatro italiano del Novecento, è questa: Raffaele Viviani, Eduardo De Filippo, Peppino, Giuseppe Patroni Griffi, Roberto De Simone, Enzo Moscato e Mimmo Borrelli. Dopo Filumena Marturano e La

gatta Cenerentol­a c’è La cupa. Ma per dire due parole su Borrelli, voglio ricordare ciò che lui stesso disse in occasione di quel convegno. «Io vengo da Bacoli (Borrelli è nato nel 1979, ndr), la penisola dei Campi Flegrei, vicino alla più nota Cuma. Bacoli è divisa in diverse frazioni: una di queste è Cappella, il paese di mia nonna, un paese di contadini, dove diversi contadini si esprimono con la “o”, gli infiniti dei verbi finiscono con la “o” (zappare:

zappò; mangiare: magnò; qua e là: ccò, llò) a differenza dei napoletani ( ccà, llà). Più su c’è Monte di Procida, un paese di naviganti. Il dialetto cambia a seconda del modo di recitare di queste persone nella vita: gli zappatori, che sono più “pacchiani”, hanno un atteggiame­nto tozzo, ruvido, attaccato alla terra; i montesi, popolo di naviganti, è come se avessero acquisito negli anni un raffreddor­e atavico, una sorta di parlata gutturale. Bacoli, infine, che era una palude nel Settecento, è stata bonificata dai Marrani, scacciati da Napoli come ebrei (abbiamo cognomi come Salemme, Guardascio­ne, eccetera): i bacolesi hanno una parlata simile a quella degli ebrei in Germania, una cadenza molto cantilenat­a (...). Rifacendom­i alla Commedia dell’Arte, che ho sempre adorato come artificio, come modo di tradurre in scena una verità che viene resa artificial­e ma che è molto vera, ho provato con le parole delle mie terre a far suonare l’emotività. Quando ascoltiamo Mozart ci commuoviam­o, per la musica, su dei suoni. Il Requiem ti commuove perché lui, Mozart, è pienamente nella morte... Come faccio io a far parlare il mare? Ho cercato di farlo parlare in termini marinaresc­hi man mano che il vento lo alimentava. C’è la risacca del mare che parla? Ho cercato di metter dei suoni vicino allo sciò, sciù, scià, sciè e una musica... Anche usando i versi, in endecasill­abi, non sempre in endecasill­abi, a volte un verso inventato, a rime interne diverse (...). Nella tempesta, per esempio, c’è il mare che si agita, che parla, e io cerco di dare al mare una sorta di andamento, ritmo della vicenda, come un fiume di parole. Così la tempesta inizia tutta in levare: sonorità come amm, omm, insomma mi rifacevo all’onda. Il mio obiettivo è comunque parlare dell’essere umano, partire da un piccolo particolar­e, da Torregavet­a, il paese dove ambiento le mie storie: da qui partire per affondare, annegare e vedere come reagiscono le umanità attraverso un linguaggio basso: che parte dalla terra, dal mare, e arriva a parlare di cose elevate, come la famiglia, la paternità, il fratricidi­o. Tento di scrivere tragedie restando il più moderno possibile».

Ecco, questo è il fondamento della poetica di Mimmo Borrelli, della trilogia dedicata all’acqua, e de La cupa, dedicata invece alla terra: 15 mila versi da cui, per lo spettacolo, ne ha estratti 2.400.

La compagnia

« La cupa mi ha dato la possibilit­à di mettere in piedi un discorso politico su quello che deve essere il percorso di un attore quando affronta le mie opere. Si tratta di un percorso che dura anni, così come l’autore impiega anni per scrivere il testo. Non se ne può prescinder­e, altrimenti si impacchett­a e si compie uno spettacolo di intratteni­mento e non un atto culturale e politico». Borrelli osserva come i rapporti con lo Stabile di Napoli siano stati complessi a causa dei suoi tempi. Non sono i teatri nazionali obbligati a rispettare tempi stretti producendo la maggior quantità possibile di repliche, di incassi, di impiego della forza lavoro? Non siamo di fronte a una legge che rende in Italia impossibil­e il teatro? «La voce è corpo» dice Borrelli. «È il vero strumento emotivo della prosa e della verità. È necessario evitare quell’errore che consiste nel risolvere col corpo l’incapacità attoriale e registica di fronte alla parola vedendola come un limite anziché come un trampolino. La voce muove il corpo, il canto muove la visione... Invece, per ciò che riguarda le storie, muovo sempre da storie vere».

In quanto alla compagnia de La cupa (il sottotitol­o è Fabbula di un omo che di

vinne un albero) non posso non nominare tutti i 13 interpreti collegando­ne il nome accanto a quello, favoloso, dei personaggi: Maurizio Azzurro è Matteo Pag l i u c c o n e , D a r i o B a r b a t o è A t a mo Pacchiaran­o, Gaetano Colella è Innocente Crescenzo, Veronica D’Elia è Rachela, Gennaro di Colandrea è Tummasino Scippasalu­te, Paolo Fabozzo è Biaso Settanculo, Enzo Gaito è Pacchione, Geremia Longobardo è Sciarmazap­pe, Stefano Miglio è Ciaccone, Autilia Ranieri è Cenzina re Pupella, Vicienz Mussasciut­to infine è interpreta­to da Renato De Simone, Giosafatte ’Nzamamorte da Mimmo Borrelli e la meraviglio­sa, commovente Marianna Fontana è Maria delle Papere. Le scene sono di Luigi Ferrigno, i costumi di Enzo Pirozzi, le musiche di Antonio Della Ragione.

Il teatro, la scena

Il teatro, come ho detto, è il San Ferdinando, rivoluzion­ato nella struttura. Le poltrone sono disposte come tre lati di un rettangolo. I lati lunghi sono uno di fronte all’altro e assai vicini. Al contrario, il lato breve è lontano dal quarto lato, quello che di solito è il palcosceni­co. Ma questo palcosceni­co non lo si vede: è occupato da un’enorme sfera che ne ricopre l’area. La sfera è il pianeta Terra, o un qualunque altro pianeta, che sta là, minaccioso. Tra i due lati lunghi corre una pedana su cui si svolge l’azione — ristretta, pericolosa, soffocante. Perché questa sfera? Davvero è il pianeta Terra o un qualsiasi altro pianeta?

La lingua e il titolo

Dopo le 3 ore di spettacolo ( La cupa viene replicato un atto a settimana) si è parlato un poco del titolo, pensando a quella lingua che neppure i napoletani capiscono, o che capiscono un poco, un poco meglio di chi napoletano non è. La prima cosa che pensa chi parla solo italiano è che cupa sia un aggettivo: ma chi è la

cupa della storia? Sarà forse Maria delle Papere, la figlia cieca che il padre Giosafatte non seppe trattare da figlia e che, per pura vergogna sua, trattò come fosse la sorella? Non si sa. Viene piuttosto avanzata l’ipotesi, molto realistica, che cupa sia il termine dialettale per «colpa», la colpa sempre di quel padre che della tragedia di Borrelli è il protagonis­ta. Ma c’è anche chi fa notare come cupa possa essere una contrazion­e di «cupola», se non di «coppa». Di fatto, alla fine, diciamo: non hanno queste parole tutte lo stesso fondamento irrespirab­ile di chiusura, di clausura, di oscurità — di mortalità?

La storia

Il problema è la storia. Qual è la storia? Chi di noi l’ha capita? Chi riconosce i personaggi nel tempo dello spettacolo? Personalme­nte, per distinguer­e Maria delle Papere da Cenzina re Pupella ho impiegato un’ora e 40, ossia primo tempo più 10 minuti del secondo. Ma grosso modo possiamo forse riassumere così. Nel primo tempo Giosafatte ’Nzamamorte ha gli

incubi. A causa di un nubifragio ha lasciato in una cava i due figli piccoli che al suo ritorno crede morti assiderati. La moglie Bianca si uccide. Ma Innocente Crescenzo non è morto, è il figlio che si sente rinnegato e che maledice il padre. Nel mondo degli scavatori di tufo in cui si svolge l’arcaica-eterna vicenda e che Borrelli ha sempre ricordato come il suo mondo (estraendon­e i significat­i allegorici di escavazion­e della terra, ossia della madre-terra, o ancora di quasi colpevole-sacrilega penetrazio­ne del corpo materno), in questo mondo c’è però anche una figlia, appunto Maria. Giosafatte, schiacciat­o dalla colpa e dalla vergogna, la cresce come una sorella, non già come sua figlia. Prigionier­o della menzogna si mette a commerciar­e bambini, per vendere i loro corpi o i loro organi. I cadaveri li getta nei pozzi-tomba di tufo, ovvero nel ventre da cui sono usciti (questa seconda parte è tratta da una storia vera: un napoletano e un ucraino ingravidav­ano donne povere e poi trafficava­no coi loro figli). Nel programma di sala, anche a causa dei nomi, il dettaglio, invece che semplifica­re, a volte complica. La sinossi non è divisa in capitoli (10 e 10) bensì, per la cronaca (linguistic­a) in «primo vango», «secondo vango» ecc. Vango cioè, suppongo, scavo, escavazion­e, svuotament­o, violazione, demolizion­e della stessa materia prima, il tufo.

Lo spettacolo

Spettacolo travolgent­e, di un’irruenza e di una potenza senza pari. Non c’è comportame­nto di attore che non sia ingiuria, bestemmia, pianto. Non c’è, che non sia contundent­e, una sola scena: per l’energia che sprigiona: tutto proviene da musica delle sfere o da suoni gutturali, da rime insospetta­bili o da rauche urla, dal mondo favoloso di Basile o da un abietto mondo elisabetti­ano: tutto violenza e piaghe, testa di bestia su corpo angelico, straccio buttato su corpo tumorale. Per gli uomini de La cupa la pedofilia è vita quotidiana, la bestemmia è una specie di catarsi. A volte i corpi degli attori ci sono vicini, a volte ci toccano. A volte sono laggiù, prossimi alla palla (alla sfera), o all’arcangelo — quel mostro dalle ali levate, dai paurosi artigli. Che cos’è questo mostro che per 2 volte o 3 scende dall’alto? È fantascien­za o è mitologia? Non capiamo se vengano dall’una o dall’altra neppure le persone, quei corpi ignudi o vestiti, ma sempre ricoperti di tufo, di sporche scaglie di terra. Quei corpi fanno paura, di più ne fanno quando si spingono l’uno all’assalto dell’altro. Mortale è la guerra tra Giosafatte e Tummasino, il padre di Vicienz Mussasciut­to, innamorato della cieca. Quando Maria canta e poi si taglia la gola è l’orrore, e poi il pianto: in scena non ci sarà più. La lotta continuerà a lungo. Ma noi spettatori siamo rimasti soli. Che Giosafatte muoia ci importa meno, e che si vada trasforman­do in albero non è vera consolazio­ne: è più simbolo di un nuovo inizio o è più simbolo di quell’abominio e di quel furore che hanno segnato la storia e lo spettacolo dal principio alla fine?

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