Corriere della Sera - La Lettura
Non fidatevi di gerarchie e modelli fissi Inaridiscono il pensiero
Appare curiosa l’idea di Platone per cui ciò che più serve, per essere un vero filosofo, è il coraggio. Ancora più sorprendente è che questa tesi venga sostenuta nel bel mezzo di una discussione sull’amore, in quella notte di discorsi che fu il Simposio. È curioso, ma è così, e qualche ragione probabilmente l’aveva. Perché parlare dell’amore è un modo per parlare di noi, per capire chi siamo. E per capire chi siamo ci vuole coraggio.
Quando Aristofane aveva cominciato a raccontare la sua buffa storia, gli altri si erano messi a scherzare, ridendo di quei primi uomini con due facce, quattro gambe e quattro braccia — delle sfere, che seminavano figli nella terra e si muovevano rotolando. In realtà erano esseri perfetti, potenti e veloci; e avevano cercato di scalare il cielo. Per punizione sarebbero stati tagliati in due, «come uova o pere». Fu una punizione inattesa e dolorosa. Divisi, questi esseri si scoprirono incompleti, non facevano più nulla. Cercavano disperatamente la metà perduta; e se la ritrovavano, si lasciavano morire abbracciati, stretti nel vano tentativo di tornare uno da due che erano diventati. Morivano di desiderio. Così Zeus dovette intervenire una seconda volta, per salvarli. Comandò che i loro organi genitali venissero spostati all’interno: accoppiandosi gli uomini forse avrebbero trovato requie al loro dolore, tornando a vivere. In parte accadde. Ecco perché l’amore è così importante: ci salva. Ma non del tutto, perché l’inquietudine, in quelle sfere divise in due, rimase. Rimane tutt’ora.
Buffa quanto si vuole, la storia di Aristofane ci mette davanti a noi stessi: esseri imperfetti, mancanti. Per questo viviamo nel desiderio. Parlare di amore è dunque un modo per parlare di noi, e delle nostre mancanze. Un tempo — il tempo del mito e dell’infanzia, dell’innocenza e dell’ignoranza — eravamo completi, non ci mancava nulla, e stavamo bene. Adesso, però, è solo mancanza, e può affogare, come scriveva Eugenio Montale. Che cosa stiamo cercando, davvero? La metà perduta, certo. Ma come hanno insegnato Sigmund Freud e Marcel Proust nell’amore si è sempre in quattro: ci sono le persone fisiche e le loro proiezioni, i fantasmi che sempre ci accompagnano. Nella metà perduta cerchiamo noi stessi, quello che vorremmo essere e ancora non siamo. Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé stessi, riconoscendosi nei propri limiti e difetti.
Alcibiade, il più bello e il più desiderato di Atene, lo imparò a sue spese, quando ormai era troppo tardi. Aveva avuto la fortuna di frequentare Socrate; avevano parlato per notti intere. Ma alla fine gli era mancato il coraggio di essere veramente sé stesso, e si era lasciato vivere. Si era abbandonato alla corrente dei luoghi comuni, delle abitudini e dei pregiudizi. La via meno faticosa, quella più facile, più generosa di riconoscimenti pubblici. Aveva sprecato la sua vita, dovette riconoscere alla fine, ubriaco, in lacrime, davanti ad Aristofane e agli altri convitati, che in lui forse rivedevano sé stessi. Perché la sua non è una storia rara.
È un fatto, c’è una tendenza all’omologazione che spinge le persone a rinunciare alla propria specificità, obbedendo alla logica del gruppo — la terribile logica delle tre N: è normale; se è normale vuol dire che è
naturale; e allora è necessario, deve essere così, non può che essere così. E chi non rientra in quest’ordine? Chi non rispetta la regola, e non ha un posto nell’ordine previsto delle cose? La prima volta che Simona Atzori si esibì su un palcoscenico, bimba di sei anni, il pubblico rimase sconcertato. I suoi genitori, eroici, la protessero da quegli sguardi. Lì quello che mancava era evidente — due braccia. E dunque doveva rinunciare a inseguire i suoi desideri, e la vita che voleva?
Spesso le differenze stanno più negli occhi di chi osserva che in chi viene percepito come diverso anche quando non si sente tale. Probabilmente negli sguardi
giameli ( Antropologia culturale, Cortina, 2018). Invece di parlare di relativismo culturale, dice Piasere, sarebbe meglio recuperare la nozione di «relatività» culturale che gli antropologi americani del secolo scorso trassero dalla fisica di Albert Einstein. Se il relativismo suggerisce l’esistenza di culture isolate, separate le une dalle altre come «cose» dai confini netti, la nozione di «relatività» mette in luce la relazionalità dei punti di vista. Siamo esseri prospettici, ci guardiamo a vicenda e questi sguardi incrociati danno vita ai mondi che abitiamo.
Ispirandosi a Eduardo Viveiros de Castro, studioso delle società dell’Amazzonia e autore del libro Metafisiche cannibali (Ombre Corte, 2017), Piasere propone una teoria prospettivista. Ciò che accomuna gli esseri umani è la capacità di dar vita a rappresentazioni e sguardi che sono tra loro commensurabili, creando una molteplicità di mondi possibili. La diversità culturale, quella che le Dichiarazioni universali sui diritti dell’uomo sempre più valorizzano, non è costituita da un insieme di «sostanze» immutabili, come le macchie di colore del vestito di arlecchino. «Le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sulle altre, senza confini precisi, con aloni che si sovrappongono in abbondanza», scrive Piasere. Soprattutto, i punti di vista sui mondi (le prospettive dunque) sono generativi e non statici. Lo dice bene l’articolo 7 della Dichiarazione universale sulla diversità culturale (Unesco, Parigi, 2001), laddove afferma: «La creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si sviluppa in contatto con altre culture».
L’assenza di normalità, l’insufficienza dei metri di valutazione, non ci chiude in un relativismo senza vie di uscita. A patto di condividere una visione prospettica e non sostanzialista delle culture e delle appartenenze a cui esse danno vita. A patto di tenere conto che le definizioni della diversità non sono mai del tutto «ingenue», ma risentono di relazioni di potere e spesso di rapporti di egemonia e subordinazione. Di che riflettere, insomma, in tema di diritti umani e democrazia. «La nuova democrazia è quell’ordinamento politico in cui le culture non sono pensate come specie o razze zoologiche di cui siamo prigionieri, ma come possibilità di scelta per migliorare la propria vita dal proprio punto di vista », conclude Piasere.