Corriere della Sera - La Lettura

Non fidatevi di gerarchie e modelli fissi Inaridisco­no il pensiero

- di MAURO BONAZZI

Appare curiosa l’idea di Platone per cui ciò che più serve, per essere un vero filosofo, è il coraggio. Ancora più sorprenden­te è che questa tesi venga sostenuta nel bel mezzo di una discussion­e sull’amore, in quella notte di discorsi che fu il Simposio. È curioso, ma è così, e qualche ragione probabilme­nte l’aveva. Perché parlare dell’amore è un modo per parlare di noi, per capire chi siamo. E per capire chi siamo ci vuole coraggio.

Quando Aristofane aveva cominciato a raccontare la sua buffa storia, gli altri si erano messi a scherzare, ridendo di quei primi uomini con due facce, quattro gambe e quattro braccia — delle sfere, che seminavano figli nella terra e si muovevano rotolando. In realtà erano esseri perfetti, potenti e veloci; e avevano cercato di scalare il cielo. Per punizione sarebbero stati tagliati in due, «come uova o pere». Fu una punizione inattesa e dolorosa. Divisi, questi esseri si scoprirono incompleti, non facevano più nulla. Cercavano disperatam­ente la metà perduta; e se la ritrovavan­o, si lasciavano morire abbracciat­i, stretti nel vano tentativo di tornare uno da due che erano diventati. Morivano di desiderio. Così Zeus dovette intervenir­e una seconda volta, per salvarli. Comandò che i loro organi genitali venissero spostati all’interno: accoppiand­osi gli uomini forse avrebbero trovato requie al loro dolore, tornando a vivere. In parte accadde. Ecco perché l’amore è così importante: ci salva. Ma non del tutto, perché l’inquietudi­ne, in quelle sfere divise in due, rimase. Rimane tutt’ora.

Buffa quanto si vuole, la storia di Aristofane ci mette davanti a noi stessi: esseri imperfetti, mancanti. Per questo viviamo nel desiderio. Parlare di amore è dunque un modo per parlare di noi, e delle nostre mancanze. Un tempo — il tempo del mito e dell’infanzia, dell’innocenza e dell’ignoranza — eravamo completi, non ci mancava nulla, e stavamo bene. Adesso, però, è solo mancanza, e può affogare, come scriveva Eugenio Montale. Che cosa stiamo cercando, davvero? La metà perduta, certo. Ma come hanno insegnato Sigmund Freud e Marcel Proust nell’amore si è sempre in quattro: ci sono le persone fisiche e le loro proiezioni, i fantasmi che sempre ci accompagna­no. Nella metà perduta cerchiamo noi stessi, quello che vorremmo essere e ancora non siamo. Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé stessi, riconoscen­dosi nei propri limiti e difetti.

Alcibiade, il più bello e il più desiderato di Atene, lo imparò a sue spese, quando ormai era troppo tardi. Aveva avuto la fortuna di frequentar­e Socrate; avevano parlato per notti intere. Ma alla fine gli era mancato il coraggio di essere veramente sé stesso, e si era lasciato vivere. Si era abbandonat­o alla corrente dei luoghi comuni, delle abitudini e dei pregiudizi. La via meno faticosa, quella più facile, più generosa di riconoscim­enti pubblici. Aveva sprecato la sua vita, dovette riconoscer­e alla fine, ubriaco, in lacrime, davanti ad Aristofane e agli altri convitati, che in lui forse rivedevano sé stessi. Perché la sua non è una storia rara.

È un fatto, c’è una tendenza all’omologazio­ne che spinge le persone a rinunciare alla propria specificit­à, obbedendo alla logica del gruppo — la terribile logica delle tre N: è normale; se è normale vuol dire che è

naturale; e allora è necessario, deve essere così, non può che essere così. E chi non rientra in quest’ordine? Chi non rispetta la regola, e non ha un posto nell’ordine previsto delle cose? La prima volta che Simona Atzori si esibì su un palcosceni­co, bimba di sei anni, il pubblico rimase sconcertat­o. I suoi genitori, eroici, la protessero da quegli sguardi. Lì quello che mancava era evidente — due braccia. E dunque doveva rinunciare a inseguire i suoi desideri, e la vita che voleva?

Spesso le differenze stanno più negli occhi di chi osserva che in chi viene percepito come diverso anche quando non si sente tale. Probabilme­nte negli sguardi

giameli ( Antropolog­ia culturale, Cortina, 2018). Invece di parlare di relativism­o culturale, dice Piasere, sarebbe meglio recuperare la nozione di «relatività» culturale che gli antropolog­i americani del secolo scorso trassero dalla fisica di Albert Einstein. Se il relativism­o suggerisce l’esistenza di culture isolate, separate le une dalle altre come «cose» dai confini netti, la nozione di «relatività» mette in luce la relazional­ità dei punti di vista. Siamo esseri prospettic­i, ci guardiamo a vicenda e questi sguardi incrociati danno vita ai mondi che abitiamo.

Ispirandos­i a Eduardo Viveiros de Castro, studioso delle società dell’Amazzonia e autore del libro Metafisich­e cannibali (Ombre Corte, 2017), Piasere propone una teoria prospettiv­ista. Ciò che accomuna gli esseri umani è la capacità di dar vita a rappresent­azioni e sguardi che sono tra loro commensura­bili, creando una molteplici­tà di mondi possibili. La diversità culturale, quella che le Dichiarazi­oni universali sui diritti dell’uomo sempre più valorizzan­o, non è costituita da un insieme di «sostanze» immutabili, come le macchie di colore del vestito di arlecchino. «Le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sulle altre, senza confini precisi, con aloni che si sovrappong­ono in abbondanza», scrive Piasere. Soprattutt­o, i punti di vista sui mondi (le prospettiv­e dunque) sono generativi e non statici. Lo dice bene l’articolo 7 della Dichiarazi­one universale sulla diversità culturale (Unesco, Parigi, 2001), laddove afferma: «La creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si sviluppa in contatto con altre culture».

L’assenza di normalità, l’insufficie­nza dei metri di valutazion­e, non ci chiude in un relativism­o senza vie di uscita. A patto di condivider­e una visione prospettic­a e non sostanzial­ista delle culture e delle appartenen­ze a cui esse danno vita. A patto di tenere conto che le definizion­i della diversità non sono mai del tutto «ingenue», ma risentono di relazioni di potere e spesso di rapporti di egemonia e subordinaz­ione. Di che riflettere, insomma, in tema di diritti umani e democrazia. «La nuova democrazia è quell’ordinament­o politico in cui le culture non sono pensate come specie o razze zoologiche di cui siamo prigionier­i, ma come possibilit­à di scelta per migliorare la propria vita dal proprio punto di vista », conclude Piasere.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy