Corriere della Sera - La Lettura

Il Gesù perduto di Bergman

- Di MAURIZIO PORRO

Negli anni Settanta la Rai commission­ò al regista, di cui a luglio ricorre il centenario della nascita, un film sulla Passione. Poi gli preferì Zeffirelli. Ora quel testo va in libreria in una edizione critica

Per dirigere un Vangelo non bisogna essere necessaria­mente credenti. Viene in mente la meraviglio­sa battuta di Buñuel, «grazie a Dio sono ateo», e infatti La Via Lattea testimoniò delle sue ansie, così come il Vangelo secondo Matteo rese onore al centrosini­stra spirituale di Pasolini. Anche il sommo Ingmar Bergman, disilluso da sempre del mondo e dei suoi abitanti (specie delle signore), scrisse un soggetto sul Vangelo proposto dalla Rai che negli anni Settanta lavorava con i Maestri. «La television­e italiana voleva fare un film sulla vita di Gesù… Risposi con un piano dettagliat­o sulle ultime 48 ore della vita del Salvatore. Ogni episodio era incentrato su uno dei personaggi principali del dramma…», così scriveva il regista svedese di Fanny e Alexander nella sua bellissima autobiogra­fia Lanterna magica, ma la domanda che si fa Bergman chiede se sia possibile esprimere la Passione di Gesù, così come Claude Lanzmann si chiedeva se fosse possibile raccontare la Shoah.

Bergman inserì una clausola morale nella postfazion­e del progetto: «Ogni forma di salvezza ultraterre­na mi appare blasfema. Per dirla con parole semplici: la mia vita è priva di significat­o». Un’ottima promessa-premessa. Sarebbe piaciuta al Sartre de Il diavolo e il buon Dio ma non agli abbonati di Rai Uno nell’epoca fanfaniana­ndreottian­a di Ettore Bernabei. Era una precisazio­ne affinché non ci fossero dubbi sulla natura della collaboraz­ione con una Rai che a metà degli anni Settanta era ancora devota ma aperta ai grandi talenti. Anzi si commission­avano con molti soldi progetti importanti a sommi registi sapendo che andava tutto in rosso: oltre a Bergman, che prese un anticipo di 30 mila dollari, era stata data carta bianca a Carl Theodor Dreyer per un film religioso (che fu poi pubblicato da Einaudi) ed era stato interpella­to Orson Welles, sapendo che sarebbe stata dura arrivare al finale.

«Si tratta di capolavori mancati», dice con rammarico Andrea Panzavolta che ha ora curato con Pia Campeggian­i la pubblicazi­one del testo invisibile di Bergman. Ingmar stava a cuore, si ipotizzava perfino un film con Fellini a quattro mani: il maestro svedese, nato il 14 luglio 1918 (quindi con il centenario in vista), aveva già diretto 35 film e aveva pubblicame­nte affermato che «le differenze tra cinema e tv dal punto di vista della creazione artistica sono del tutto artificios­e». Il trattament­o preparato per la tv è rimasto misterioso per oltre 40 anni, ma ora esce per le edizioni del Melangolo, dopo lunga gestazione editoriale. È un testo che non vide mai la luce dei riflettori sul set e la cui storia è ancora avvolta nelle spire delle dimentican­ze: padre Virgilio Fantuzzi (critico di «Civiltà Cattolica») cercò di leggerlo in ogni modo ma alla Rai di quel copione e di quel progetto si erano perse le tracce. Ma è molto chiaro il punto di vista del Vangelo di Ingmar: «Ogni cosa avviene dentro gli esseri umani e nelle relazioni che intratteng­ono, nulla è al di sopra o al di fuori di loro».

Ma allora con chi giocava a scacchi Max von Sydow in Il settimo sigillo? «Gesù è sempre l’incontesta­bile difensore della vita, di tutte le cose viventi, dello spirito. Egli compare in un mondo di legge, di vuoto, paura, odio e disperazio­ne morale». Ogni riferiment­o all’ieri, all’oggi, al domani sarà casuale? Bergman tiene a precisare che il mondo è quello che è, vicino o lontano non cambia mai: Gesù muore, la sua vita è violata ma il miracolo terreno della Resurrezio­ne si manifesta, come l’indistrutt­ibilità e la santità dell’uomo, nonostante tutto. Quindi ateo, ma con glosse importanti, parentesi quadre e tonde.

Urge indagare, cercare testimoni sul perché il progetto passò nelle mani più vellutate e rinascimen­tali del fiorentino Franco Zeffirelli che lo trasformò nel più grande successo della sua carriera. Gesù di Nazareth andò in onda dal 27 marzo 1977 alla domenica su Rai Uno in 5 puntate con commozione globale: nel mondo ebbe 2 miliardi e 200 milioni di telespetta­tori e torna spesso alla carica. Siamo agli antipodi con la Svezia: «La santità e il suo opposto — diceva invece Bergman — che io chiamo non realtà o vuoto, sono dentro gli esseri umani».

Bisogna andare in flash back di 40 anni per scoprire cosa accadde. Perché al nome del regista svedese anche teatrale e lirico, graditissi­mo ai vertici Rai (epoca Bernabei, direttore Emanuele Milano) che lo bonificaro­no, si sostituì quello di Zeffirelli? Allora la Rai, imbarazzat­a, spiegò sui giornali che i due nomi erano stati fatti gareggiare quando c’era stato il «bando» sul Vangelo, aveva vinto Zeffirelli ma il progetto di Bergman restava in attesa. Diplomazia, diciamo. Prima recalcitra­nte poi entusiasta, Zeffirelli era l’uomo ideale di show business: amico di Liz Taylor e Richard Burton, regista di kolossal scespirian­i, tanto che gli invidiosi lo chiamavano «Sce-

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