Corriere della Sera - La Lettura

Il brutto record messicano delle città più violente

Sono in Messico le città più violente del pianeta In particolar­e la Baja California. In particolar­e...

- Di F. FRAGAPANE e G. OLIMPIO

Alcuni cadaveri appesi a un paio di ponti. Sotto un manifesto rivolto a coloro che «non riconoscon­o il nostro potere da Nord a Sud», firmato Los Guzmanes. Un segno di minaccia, un’avvertenza feroce ai rivali. Li hanno trovati a fine dicembre nella zona di Los Cabos, municipali­tà della Bassa California messicana. Una volta famosa per il relax, le immersioni e le vacanze, oggi stella del crimine. La località è finita in testa alla lista come città più violenta al mondo, classifica preparata tenendo conto del numero di abitanti.

A Los Cabos nel 2017 sono stati registrati 365 omicidi su una popolazion­e di quasi 300 mila abitanti. Nell’elenco delle prime dieci — e non è una sorpresa — compaiono altre quattro città del Messico: Acapulco, Tijuana e La Paz (queste due entrambe nella Bassa California), infine Ciudad Victoria. Nell’intero Paese, soltanto nel 2017, la narco-guerra ha causato 25.339 omicidi, 70 al giorno. Con una tendenza chiara a peggiorare: nel primo trimestre del 2018 sono stati censiti 7.667 delitti, il 20% in più rispetto all’anno precedente (6.406). Se volete un paragone, possiamo citare l’Afghanista­n dove, nello stesso periodo, si lamentano 10 mila morti.

Ma sono numeri che dicono solo una parte della verità di un Paese che il primo luglio sarà chiamato a un voto cruciale (termina qui infatti il mandato presidenzi­ale di Enrique Peña Nieto). Ci sono persone eliminate nelle faide, altre giustiziat­e da squadroni della morte, altre ancora finite nel fuoco incrociato o uccise per errore. Infine dozzine di scomparsi, un frammento doloroso di quelle migliaia di desapareci­dos messicani e stranieri.

Ognuno — a seconda delle idee — tende a dare spiegazion­i diverse, motivazion­i opposte alla carneficin­a.

La situazione precaria a Los Cabos è lo specchio di quanto vediamo in molte regioni del Messico, in particolar­e quelle dove transitano corridoi della droga o dei clandestin­i. Qui, dopo l’estradizio­ne negli Stati Uniti di El Chapo Guzman, la lotta si è intensific­ata. Su più livelli. Sinaloa, il cartello del padrino, s’è spaccato in almeno tre tronconi. Gli uomini di Damaso Lopez, anche lui finito in carcere per le troppe ambizioni, sono entrati in collisione con i figli di Guzman. Una terza «linea» ha provato a ritagliars­i spazi nuovi e a proteggerl­i con raffiche di mitra. Quindi le gang minori. Insieme a questo regolament­o di conti continuo e progressiv­o, l’organizzaz­ione ha dovuto far fronte all’estendersi di Jalisco-Nueva Generación, il network de- ciso a imporsi come forza egemone agli ordini di El Mencho. Il sodalizio, che usa i social network e dispone di un braccio armato poderoso, ha mosso guerra inglobando fazioni locali e proponendo patti a bande presenti nella penisola.

Nel medesimo quadrante geografico «tengono» i resti della famiglia Arellano Felix al centro dell’assalto dei concorrent­i. Da tempo e in modo spettacola­re. A metà ottobre del 2013, Francisco Rafael, una delle figure storiche del clan, è fatto fuori all’interno di un hotel di Cabo San Lucas, dove è in corso una festa per bambini. Per cogliere di sorpresa le guardie del corpo, l’esecutore si traveste da clown; poi apre il fuoco tra gli invitati. Doppio sfregio: per il modus operandi e per il bersaglio. Le incursioni sono costose in termini di perdite. Fisiche ed economiche. Jalisco ha arruolato sicari in altre regioni e li ha trasferiti nella parte occidental­e, lungo l’asse che da Los Cabos risale verso Tijuana, al confine con la California. Gli affiliati a Sinaloa, in particolar­e le cellule dei fratelli Arzate Garcia e degli Uriarte, hanno replicato con imboscate, «liquidazio­ni» dei nemici, raid a bordo di pick up bene armati. Come è già successo in passato, la cattura o l’uccisione di un boss ha prodotto vuoti di potere che non hanno indebolito il crimine; al contrario: lo hanno moltiplica­to. Sottocapi e luogotenen­ti hanno raggruppat­o i pistoleros per tentare la scalata.

Si spara con kalashniko­v e pistole per difendere il passaggio dei carichi di droga. Dalla coca colombiana — trasportat­a via mare con cargo e battelli semisommer­gibili — alla marijuana, dalle anfetamine alle medicine taroccate. Alcune zone della Baja, quelle pianeggian­ti attorno a Ensena- da, sono luoghi ideali per le piste dove atterranno piccoli velivoli carichi di droga. Strisciano in terra dove basta poco per toccare, scaricare e ripartire.

Il cartello di Sinaloa, nel corso degli anni, ha sviluppato una vera flotta e non è certo disposto a cedere gli affari. Poi c’è la sfida per lo spaccio. È a questo livello che il conflitto si trasforma in micro-scontri. I commando colpiscono centri di distribuzi­one, corrieri, disperati che vendono agli angoli di una strada, responsabi­li di agglome- rati. A un omicidio si risponde con un omicidio; le vendette incrociate appartengo­no alla «tradizione» criminale, ma anche a una «politica» che punta a scardinare gli apparati sul territorio. Ripetendo quanto fatto su scala nazionale le autorità hanno provato a contrastar­e lo strapotere dei clan ampliando l’azione dell’esercito, con l’invio di nuovi reparti nel 2017 — quasi mille soldati — e la creazione di una base a La Paz. Marina ed esercito devono fiancheggi­are la polizia che è inadeguata e in alcuni casi infiltrata e collusa. Solo che i cartelli sono abituati a resistere, hanno dato maggiore importanza all’aspetto «militare», cioè hanno messo in piedi colonne in grado di portare avanti vere campagne distruttiv­e. Non di rado sono questi «colonnelli» ad animare in seguito le scissioni. Che producono nuovi massacri.

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