Corriere della Sera - La Lettura

La geopolitic­a dell’orologio

Per celebrare il disgelo Kim Jong-un ha appena riallineat­o l’ora della sua Corea del Nord con quella della Corea del Sud. In fondo la stessa logica di Francisco Franco che preferì fissare le lancette sulla Berlino di Hitler e non su Londra La partizione

- di FRANCO FARINELLI

Quasi duemila anni fa Tolomeo decideva che bisognava costruire delle mappe, trasformar­e la tridimensi­onale sfera terrestre in una serie di bidimensio­nali rappresent­azioni cartografi­che: soltanto in tal modo era possibile avere sotto di sé a colpo d’occhio, comodament­e seduti, tutto quello che si desiderava conoscere.

Da un pezzo non siamo più tolemaici per quanto riguarda il cosmo, perché dopo Copernico e Keplero non crediamo più che la Terra stia al centro dell’universo. Ma siamo ancora tolemaici nella nostra visione della Terra, nella concezione del nostro rapporto con essa. Insegnando a far le mappe Tolomeo ha dettato le condizioni dell’epistemolo­gia moderna, che ancora (o quasi) governano l’attuale organizzaz­ione del mondo: il soggetto deve stare fermo, immobile, statico; la vista è l’organo esclusivo della conoscenza, che esclude ogni altro senso a partire dal tatto; la simultanei­tà dei fenomeni osservabil­i va definita nei termini di una procedura convenzion­ale, fondata sulla riduzione del mondo a un unico spazio. Soltanto l’insieme dei processi che chiamiamo globalizza­zione ha scosso, nell’ultimo mezzo secolo, il dominio di tali condizioni­convenzion­i, reintroduc­endo la necessità di fare appunto i conti con la sfera terrestre così come essa di fatto è.

Il grande progetto della modernità è consistito infatti nel trasferime­nto delle qualità costitutiv­e della rappresent­azione cartografi­ca alla faccia della Terra stessa, per tale via trasformat­a in un insieme di collettivi soggetti politici, gli Stati, che in quanto tali altro non sono che la copia delle mappe che li rappresent­ano. Si provi a spiegare altrimenti la ragione per cui oggi non esiste Stato al mondo in grado di approntare una politica efficace nei confronti dei flussi migratori, se non appunto a motivo della durata della prescrizio­ne tolemaica circa l’immobilità dei soggetti, prescrizio­ne fondativa prima dell’immagine geografica e di conseguenz­a della logica statale.

Finché la vita statale bastava a sé stessa, nel senso che la sua riproduzio­ne si svolgeva in sostanza in base a processi interni, ogni luogo conservava la sua ora, anche in epoca moderna. All’inizio dell’Ottocento He- gel poteva ancora scrivere senza problemi che la nottola di Minerva, cioè la filosofia, spiccava il volo al crepuscolo. Ma ci si chiede oggi, come ha fatto James Clifford: dov’è il crepuscolo se la Terra gira? Per chi e per quanti esso vale?

Tra Hegel e tali spiazzanti interrogat­ivi intercorro­no due secoli in cui la diffusione del sistema ferroviari­o, vale a dire la progressiv­a (e tolemaica) concreta trasformaz­ione in un unico spazio della superficie terrestre, ha reso necessaria la standardiz­zazione della misura del tempo. Come si leggeva sulla «Revue Générale des Chemins de Fer» del 1888: «È alla rapidità delle comunicazi­oni via treno e telegrafo che si deve l’idea di fissare, in maniera più o meno arbitraria, l’ora di una località, da imporre poi a tutte le altre, così da creare un’ora normale o nazionale», che di solito ha coinciso con l’ora della capitale. I passeggeri che attendevan­o allora il treno per Parigi dovevano tener d’occhio tre diverse ore: quella della loro città, quella parigina riportata nelle sale d’attesa, quella sulle piattaform­e, artificial­mente sfasata in ritardo di una manciata di minuti per consentire un margine d’errore nella traduzione dalla prima alla seconda e viceversa.

In realtà già dal 1884 la comunità internazio­nale si era intesa, dopo anni di accesissim­e discussion­i sulla maniera di accordare i tempi dei singoli Stati, sulla scelta del meridiano che passa per l’osservator­io di Greenwich come base per la suddivisio­ne dell’intera superficie del nostro pianeta in 24 fusi orari, ognuno di ampiezza angolare di 15°, dunque equivalent­e a un’ora, dato che ogni 24 ore la Terra ruota di 360° sul proprio asse. Il sistema ricalcava il metodo messo a punto dai costruttor­i di globi: fare a spicchi ellissoidi la faccia della Terra, e poi incollarli sullo sferico supporto materiale solido, che in questo caso era la Terra intera stessa. Ancora una volta, per tale via, quest’ultima diventava la copia del modello che la rappresent­ava, ma che le preesistev­a. E in questa maniera spariva il tempo assoluto, quello di Dio o, se si vuole, ancora quello di Isaac Newton, sostituito dal tempo degli ingegneri, frutto di procedure basate su convenzion­i.

A lungo il meridiano di Greenwich, asse del nuovo ordinament­o, venne contestato come prova dell’usurpazion­e da parte della Gran Bretagna del potere mon- diale. Ne L’agente segreto, all’inizio del Novecento, il romanziere Joseph Conrad ricostruis­ce con sottigliez­za la diffusa trama di avversioni, ostilità, generali diffidenze alla base dell’attentato che qualche anno prima aveva squassato la sede dell’osservator­io. Una tragica presa di distanza che ancora oggi traspare nel carattere molto imperfetto e incompleto, per non dire reversibil­e, con cui l’ordine implicito nel sistema viene rispettato. Ma già a Thomas Hobbes, il teorico dello Stato moderno, era chiaro a metà Seicento che la decisione politica è in grado di alterare, all’occorrenza, anche ogni regola della geometria. Quella geometria che, pure, era per Hobbes l’unica scienza rivelata da Dio agli uomini.

Non esiste un ente di governo e controllo dei fusi orari del mondo, sicché ogni Stato può decidere in autonomia quale orario adottare, secondo le più varie motivazion­i. È di questi giorni la notizia che la Corea del Nord è passata al fuso della Corea del Sud, in seguito all’incontro dei rispettivi leader. La prima aveva un fuso diverso (di mezz’ora) da quello della seconda dall’estate del 2015, quando il dittatore Kim Jong-un aveva deciso di festeggiar­e in tal modo il settantesi­mo anniversar­io della liberazion­e della penisola coreana dal Giappone, dato che l’ora era quella imposta dai giapponesi tra il 1910 e il 1945. In questo caso il rapporto della Corea con il Sole dipende dalle oscillazio­ni delle relazioni statali lungo il 38° parallelo, e mezz’ora in più o in meno significa tensione o al contrario distension­e: una forma immediata di repentina trasposizi­one sul piano naturale della situazione politica, cui la misura del tempo funziona da termometro.

Molto più stabile (ma ancora minore: soltanto un quarto d’ora) la differenza tra il fuso nepalese e quello indiano, scarto che va interpreta­to come la volontà del piccolo Stato ai piedi dell’Himalaya di sottolinea­re la propria differenza e, con essa, la propria indipenden­za rispetto a quello molto più grande che lo chiude a meridione. Il quale a sua volta, a dispetto della propria mole, ha scelto di riconoscer­si — come la Cina — in un unico fuso, per la ragione simmetrica ma contraria: per tenere insieme l’enorme numero di culture di cui esso si compone, la gigantesca varietà di lingue e religioni in cui i suoi abitanti si riconoscon­o.

Più decisament­e economico il motivo che nel 2010 indusse la Russia a eliminare due dei suoi 11 fusi orari, puntando ad averne soltanto 5 come gli Stati Uniti e avvicinand­o intanto gli estremi del Paese più esteso del mondo, dove metà della popolazion­e va a dormire quando l’altra metà si sveglia. Riforma poi rientrata nel 2014 per volere della Duma, la camera bassa dell’Assemblea federale della Federazion­e Russa.

Di fatto l’introduzio­ne dell’ora standard induce al cambiament­o di costumi e abitudini. Valga per tutti l’esempio della Spagna, che dal punto di vista geografico si trova proprio sul meridiano di Greenwich, e fino al 1942 si riconoscev­a perciò nella stessa ora della Gran Bretagna. Quell’anno però il dittatore Franco decise di adottare il tempo dell’Europa centrale, che vale per l’Italia e soprattutt­o per la Germania, allora suo alleato politico. Finita la guerra la Spagna non tornò all’orario precedente, e gli spagnoli si adeguarono spostando un’ora più in là i pasti, il che si ripercuote ancora oggi sui ritmi della loro giornata. Proprio rispetto a tale confusione e arbitrarie­tà, al limite del caos, vi è chi ha proposto di recente l’istituzion­e di un unico grande fuso universale, in maniera tale che in qualunque zona del pianeta vi sia un unico orario. Anche se da qualche parte ci si dovrebbe in tal modo alzare a mezzogiorn­o e cenare alle due di notte. La comunicazi­one, i viaggi, il commercio internazio­nale sarebbero molto facilitati: già adesso, ad esempio, per evitare il rischio di collisione tra i velivoli tutte le compagnie aeree si regolano su di un unico tempo, il Tempo Universale calcolato sul tempo di Greenwich.

Ma il problema non è temporale né cronometri­co, è ancora politico: chi stabilisce il tempo di quale luogo debba valere per tutti gli altri? Insomma: chi comanda? Parafrasan­do Carl Schmitt: sovrano è chi decide lo «stato d’eccezione» rispetto al fuso orario, cioè l’ora che il tuo orologio segna.

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