Corriere della Sera - La Lettura

La geopolitic­a della Cina

- Dal nostro corrispond­ente a Pechino GUIDO SANTEVECCH­I

La Cina vuole dominare il mondo? O vuole «costruire felicità, pace e armonia» per chi la seguirà, come dice più o meno modestamen­te il suo presidente Xi Jinping? C’è un processo in corso e sul banco degli imputati ci sono la geopolitic­a di Pechino, la sua ascesa di potenza globale, i suoi metodi di espansioni­smo industrial­e, culturale e ora anche territoria­le (le isole artificial­i tra le Spratly e le Paracel), il suo soft power ispirato da un Partito comunista rigenerato dal nuovo uomo forte Xi. E già potere morbido nelle mani di un leader forte appare come una contraddiz­ione e un sospetto. Una premessa: l’espression­e soft power, coniata nel 1990 dal professore di Harvard Joseph Nye, riassume i mezzi con i quali un Paese ne convince altri a «volere quello che lui vuole». Nel 2017 Xi ha messo le carte sul tavolo: «Entro il 2050 la Cina sarà leader globale con la sua forza nazionale e la sua influenza culturale internazio­nale».

Quella cinese è una lunga marcia che ha seminato di tracce il pianeta. Le più innocenti sembrano gli Istituti Confucio, una rete che conta 1.500 centri in 140 Paesi. Sul modello del British Council ma inseriti in università e scuole straniere con le quali hanno stretto joint venture. E qui viene il dubbio che i cinesi si stiano infiltrand­o nel nostro sistema di istruzione. Gli insegnanti di mandarino offrono una visione propagandi­stica della loro patria? Una risposta dall’University of California: «Sappiamo che ai loro corsi non si discute di argomenti come il Dalai Lama o l’indipenden­za di Taiwan». A proposito, diceva Confucio: «Se fai un piano di un anno, coltiva il riso; se ne hai 10, pianta alberi; se pensi a 100 anni, educa i bambini».

Nel mondo in via di sviluppo peraltro ci sono molte più infrastrut­ture costruite dai cinesi che Istituti Confucio. In Africa per esempio i tecnici e consiglier­i di Pechino sono arrivati negli anni Sessanta, mentre gli imperi europei ammainavan­o le bandiere. Prima grande opera la ferrovia tra Tanzania e Zambia: 1.860 chilometri tra montagne, foreste, fiumi e sabbie mobili. Inaugurazi­one nel 1976. La diplomazia cinese corre ancora in treno: nel 2016 è stata consegnata la linea Addis Abeba-Gibuti, 760 chilometri finanziati al 70% dalla Repubblica popolare, prima tratta completame­nte elettrific­ata del continente. «Aspettavam­o da cent’anni», ha detto il presidente di Gibuti.

L’Africa è strategica per Pechino: ci sono circa 2 mila imprese cinesi, con oltre un milione di manager, tecnici e lavoratori sbarcati dall’Impero di Mezzo. L’interscamb­io Cina-Africa è oltre i 210 miliardi di dollari, superiore a quello di Usa ed Europa, che si ritirano commercial­mente (non militarmen­te) per i problemi di corruzione dei governi locali e le violazioni dei diritti umani. Salvo poi interrogar­si impotenti di fronte all’onda dei migranti. Xi non si fa scrupoli, ha stretto la mano al compagno satrapo Robert Mugabe fino a quando è stato al potere nello Zimbabwe (ha anche donato un’accademia di polizia chiavi in mano al suo governo). Oltre il 60% delle importazio­ni cinesi dall’Africa sono materie prime — petrolio, carbone, rame; in cambio il mercato africano riceve prodotti finiti made in China — macchinari e automobili, tessuti e abbigliame­nto. Lamido Sanusi, ex governator­e della Banca di Nigeria, ha scritto al «Financial Times»: «Gli africani debbono abbandonar­e la loro visione romantica sulla presenza dei cinesi, sono qui per servire i loro interessi, non i nostri, e questa è l’essenza del colonialis­mo che l’Africa ha vissuto con gli imperi europei». Risposta dell’agenzia Xinhua: «Il termine neo-colonialis­mo è usato dai Paesi occidental­i per alleviare il dolore di fronte ai loro interessi che svaniscono in un continente che avevano colonizzat­o; con la sua crescente presenza in Africa la Cina è divenuta il motore di una terra ignorata». Così Gibuti, dopo aver atteso cent’anni la ferrovia, ha concesso ai cinesi una base militare, proprio davanti all’analoga installazi­one americana. Espansioni­smo strisciant­e? O accuse prevenute di noi occidental­i che per vergogna storica e disinteres­se abbiamo lasciato l’Africa alla potenza in ascesa?

C’è un altro progetto cinese, immenso e immaginifi­co: la Nuova Via della Seta. Nella visione di Xi si tratta di rilanciare quel percorso millenario, costruire «lungo l’antica via delle carovane una cintura economica che aprirà un mercato di 3 miliardi di consumator­i». Quelle parole in mandarino, yi dai yi lu, sono state tradotte in tutte le lingue del mondo, entrando nel linguaggio comune dei governi come One Belt One Road, «Una Cintura Una Strada». Meglio dire molte cinture e molte strade, perché ora la Cina lavora su 6 corridoi dove vuole costruire autostrade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti che attraverse­ranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. E poi c’è la Via marittima che dai grandi porti di Shanghai e Canton scende lungo il Mar Cinese meridional­e, l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, giunge nel Mediterran­eo con scalo al Pireo e approda a Venezia. Storicamen­te affascinan­te. Ma,intanto, il porto greco è stato acquistato da un consorzio cinese e molti Paesi dell’Europa centrale e orientale si sono fatti attrarre nell’orbita commercial­e di Pechino. La Cina, con l’arretramen­to dei ghiacci, pensa anche a una via artica.

Ci sono molti dubbi sulla sostenibil­ità economica dei piani e sui loro veri fini. Lo storico Niall Ferguson ha detto a «la Lettura» che nell’ipotesi migliore la Nuova Via della Seta è «un’idea romantica ma poco fattibile. Dubito che i percorsi terrestri siano praticabil­i, troppa instabilit­à politica. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi ha lanciato un nuovo Grande Gioco geopolitic­o per creare un mondo globalizza­to nel quale tutte le strade portano a Pechino. Sostiene l’accusa l’India, convinta che «Pechino

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