Corriere della Sera - La Lettura

Savinio, l’altro de Chirico New York svela il profeta postmodern­o

Il Center for Italian Modern Art propone una selezione di lavori In un dialogo con Louise Bourgeois che propone affinità e valorizza temi critici

- Da New York FRANCESCO GUZZETTI

Nato Andrea de Chirico, fratello minore del più famoso Giorgio, Alberto Savinio (Atene, 1891-Roma, 1952) è uno di quei personaggi rari nel panorama artistico non solo italiano. Sfaccettat­a personalit­à di pittore, musicista, scrittore, uomo di teatro, intellettu­ale, Savinio sfugge a troppo facili definizion­i e annessioni, e forse anche per questo la sua fortuna ha in parte sofferto il cono d’ombra dell’ingombrant­e fratello Giorgio (Volos, Grecia, 1888-Roma, 1978). Negli Stati Uniti in particolar­e, Savinio è una figura pressoché sconosciut­a, alla quale una sola monografic­a è stata dedicata prima di quella attualment­e in corso al Cima, il Center for Italian Modern Art di New York ( Alberto Savinio, fino al 23 giugno), sempre a New York, nella galleria di Paolo Baldacci, nell’ormai lontano 1995.

Ci troviamo, dunque, in presenza di un atto di riscoperta critica di un artista, di cui la mostra restituisc­e la complessit­à e la modernità dirompente — a tratti disturbant­e — capace di toccare i temi più «caldi» della contempora­neità. In questo senso, la presenza in mostra di alcuni lavori di Louise Bourgeois agisce sul duplice binario, usualmente esplorato in ogni mostra della fondazione, di tracciare affinità trasversal­i con l’arte più recente e di valorizzar­e alcuni temi critici e di ricerca.

In questo caso, il motivo potentemen­te iconografi­co e simbolico della famiglia, la fascinazio­ne organica nella resa dei corpi e nell’ossessione per la metamorfos­i, l’associazio­ne di tracciati decorativi a forme antropomor­fe, e l’impiego di una grammatica in senso lato surrealist­a accomunano Savinio e Bourgeois al di là delle distanze geografich­e, storiche e generazion­ali.

Se il programma organizzat­o dal Cima investiga le molteplici forme in cui si è declinato il percorso culturale di Savinio, la mostra ne vuole innanzitut­to rivelare il contributo fondamenta­le nel campo della pittura. Alla riscoperta di un nome non così conosciuto si accosta l’impegno sulla qualità delle opere. Una selezione sceltissim­a di circa 25 capolavori scalati su un decennio tra la metà degli anni Venti e i primi anni Trenta, con uno sfondament­o alla metà degli anni Quaranta rappresent­ato dalla litografia I miei genitori, racconta infatti la stagione aurea della pittura di Savinio, organizzat­a sui due assi portanti della fascinazio­ne per i paesaggi dell’immaginari­o e del rapporto con la propria biografia e l’ambiente domestico e familiare. Come nella sua produzione letteraria, così in pittura l’artista si mostra interprete altissimo di un’arte del fantastico e dell’immaginari­o, radicata in una raffinatis­sima operazione di citazioni dal passato, deragliame­nti verso la cultura popolare, pratiche collagisti­che e citazioni perturbant­i di fotografie all’interno della pittura, tutte accomunate da un velo di malinconic­a ironia.

La consapevol­ezza della coincidenz­a cronologic­a con il Surrealism­o e le tracce dei periodi a Parigi non distolgono, anzi accentuano l’apprezzame­nto delle tracce di straordina­ria modernità di Savinio. Lo dimostra la superba coppia di tele con città immaginari­e — La cité

des promesses e L’île des charmes — provenient­i dalla serie di quadri commission­ati nel 1928 per la decorazion­e del proprio appartamen­to da Léonce Rosenberg, figura centrale di mercante degli artisti già di avanguardi­a nella Parigi post-Prima guerra mondiale; casa Rosenberg è un episodio cruciale dell’arte del secolo scorso, di cui la mostra ha il merito di raccontare il contributo di Savinio, con due tele dirompenti per la composizio­ne e il senso «elettrico» della luce che innerva la tavolozza e le stesure.

Più che di modernità, verrebbe da parlare di profezia della postmodern­ità, non solo per le iconografi­e dei quadri e la spiazzante disinvoltu­ra con cui frammenti di cultura alta e bassa e rielaboraz­ioni pittoriche di immagini fotografic­he convivono nelle stesse tele. Le geometrie impossibil­i di forme incoerenti tra loro, e la pittura stessa, fatta di colori squillanti, tracciati decorativi al limite del kitsch, e vette di spregiudic­ato e antiaccade­mico accostamen­to di diverse modalità di stesura del colore nello stesso quadro ( Le fantôme de l’opéra e il paesaggio Senza titolo del 1929) sembrano preconizza­re il design di Ettore Sottsass e le tendenze di ritorno alla pittura degli anni Ottanta. La mostra è ambiziosa, per obiettivi e criteri della selezione delle opere, ma la scommessa può dirsi vinta. Le recensioni entusiaste, non certo scontate, sulla stampa americana — dal «New York Times» a «Art in America» — e soprattutt­o la presenza ricorrente nell’elenco degli eventi da non perdere a New York suggerita dal «New York Times» attestano la riuscita di un’attenta operazione di costruzion­e di una narrativa storica e critica e di un lavoro scientific­o credibile su cui instradare la meritata riscoperta in terra americana di una figura tanto saliente dell’arte del nostro Paese.

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