Corriere della Sera - La Lettura
Basta teorie del complotto Hitler è morto nel bunker
Un reporter francese ha fatto esaminare (con il via libera della Lubjanka) i resti del Führer. «Sono autentici», dice. E conservati «alla russa»
«Hitlerèm orto nel 1945 nel suo bunker a Berlino, e non a novant’anni in Argentina o in Brasile come vogliono le fantasie dei complottisti e dei nostalgici. Stalin lo sapeva sin dall’inizio e ha mentito». Per giungere a queste conclusioni il reporter francese Jean-Christophe Brisard — con l’aiuto della collega russo-americana Lana Parshina — ha condotto trattative con le autorità di Mosca durate due anni. È riuscito infine a entrare alla Lubjanka, la sede dei servizi segreti russi, e ha fatto esaminare i resti di Hitler da un medico legale indipendente, Philippe Charlier. I frutti di quel lavoro sono un documentario e un libro, L’ultimo mistero di Hitler (Ponte alle Grazie).
Che cosa l’ha spinta a occuparsi del tema eterno della morte di Hitler?
«Avevo l’ambizione di spazzare via i dubbi sulla sua sorte. A troppi piace sognare un Führer capace di beffare i servizi di tutto il mondo e di morire di vecchiaia al sicuro in America Latina».
Non è andata così?
«No, e ho raccolto le prove per dimostrarlo in modo definitivo».
Come è riuscito ad avere accesso ai reperti custoditi a Mosca?
«Sono stato molto paziente e costante, non mi sono lasciato scoraggiare quando per molte volte mi hanno dato appuntamenti poi non rispettati, e ha giocato il fatto che fossi francese».
Come mai?
«Anni fa una équipe americana poco rigorosa dal punto di vista scientifico ha espresso dubbi sull’autenticità del cranio di Hitler. I russi lo hanno interpretato come il desiderio degli americani di togliere loro il trofeo della vittoria».
Perché è ancora così importante, a distanza di 73 anni?
«Perché per i russi la vittoria nella Seconda guerra mondiale è un mito fondatore, fonte di fierezza e di orgoglio. Custodire i resti di Hitler ricorda al mondo che sono loro a essere entrati per primi a Berlino, conquistando la capitale nazista, in sostanza sono loro ad avere vinto una guerra costata all’Urss 22 milioni di morti».
Tornando a come è riuscito a entrare alla Lubjanka, perché il fatto di essere francese l’ha favorita?
«Dopo quella esperienza negativa con l’équipe americana mi hanno percepito come indipendente, neutrale. Credo di averli convinti con un approccio molto fattuale».
Cioè?
«Loro hanno la fissazione di essere manipolati, ma anche io temevo di esserlo a mia volta. Putin mi permetteva di analizzare i resti di Hitler perché ne venisse convalidata l‘autenticità, era evidente. Io allora ho proposto un patto: chiedo tutte le autorizzazioni, lascio che voi siate sempre presenti, che controlliate ogni nostro movimento, parola e attrezzatura (erano terrorizzati che la telecamera nascondesse un sistema laser per danneggiare i reperti, per esempio), ma voi lasciate che io porti il migliore medico legale specializzato in cold case storici, Philippe Charlier, e non potete avere accesso alle sue conclusioni. Volevo che il nostro lavoro fosse inattaccabile scientificamente. Hanno accettato».
Quindi, come siete giunti alla certezza che Hitler è morto nel bunker?
«I denti, o meglio quel che ne rimane. Quella è la prova conclusiva. Charlier ha verificato che fossero autentici, che risalissero a quegli anni, che non portassero tracce di alimentazione carnivora (Hitler era vegetariano), e li ha comparati con il dossier medico fornito dall’assistente del dentista di Hitler. Quelli trovati nel bunker nel corpo carbonizzato sono i denti di Hitler».
Come è morto?
«Analizzando anche il cranio, con un colpo di pistola alla tempia. Non alla bocca, come vorrebbero gli inglesi, perché nei denti non abbiamo trovato traccia delle conseguenze di uno sparo».
È stato lui a spararsi?
«Questo sarà sempre impossibile stabilirlo con certezza. E ramala todi Parkinson, potrebbe avere chiesto al suo valletto di sparare».
Perché tutti questi anni di leggende su Hitler in Sudamerica?
«Perché Stalin ha fatto il possibile affinché la morte di Hitler fosse avvolta nel mistero. Quando a Potsdam Churchill chiede a Stalin che ne è di Hitler, lui risponde di non averne idea. Mente, perché ha già ricevuto un documento — che ho potuto consultare — nel quale i servizi gli indicano il luogo esatto dove è stato sepolto Hitler, proprio a pochi chilometri da Potsdam».
E perché Stalin ha mentito?
«Voleva avere sempre una lunghezza di vantaggio e saperne più degli altri. Deve avere pensato che i servizi occidentali avrebbero speso tempo e risorse per cercare Hitler in tutto il mondo».
Come sono conservati i suoi resti?
«Nel modo più banale e sprezzante possibile. I denti sono in una scatola da sigari, le ossa del cranio in una scatola per floppy disk. È il modo dei russi per umiliare il nemico fino all’ultimo».
fie mostravano troppi cadaveri e l’orrore davanti alla morte, anche davanti al crimine, decresce all’aumentare del numero
dei cadaveri mostrati… sempre solo cadaveri anonimi, non i cadaveri di persone conosciute in vita o che, addirittura, erano state dei vicini».
Da tempo, la televisione ha rafforzato la nozione di memoria collettiva: tutti i grandi fatti vengono documentati, addirittura, come nel caso delle Torri Gemelle, vissuti in diretta. Al punto che qualcuno, ieri come oggi, teme che il video riduca la storia a rumore di fondo, decorazione di uno spettacolo che ha smarrito ogni direzione, ogni senso. La nostra è un’età di simulacri più che di documenti, un’era che con la sua visualizzazione totale rende tutto perfettamente contemporaneo. Una accanto all’altra passano le immagini di diverse datazioni, e ciò le rende perfettamente attuali. Tutto è sincrono. Il passato non esiste più, se non come forma del discorso.
Il problema non è se sia giusto o meno mostrare le immagini dell’orrore, parlarne, discuterne: il contenuto morale di certe scene è fragile, muta con il mutare dei tempi e dei contesti in cui viene rappresentato. Se mai vi sono alcune immagini (i lager, la bambina vietnamita sfigurata dal napalm, le Torri Gemelle…) che hanno raggiunto «lo status di punti di riferimento morale» (Susan Sontag). È questa la condizione che bisogna preservare.
Secondo Anders, Holocaust va preso in considerazione per la sua capacità immaginativa, per aver saputo suscitare emozioni: «Quando poi non si trattava d’immagini ma di parole, si ascoltava o si leggeva sempre soltanto la nuda, esangue cifra di sei milioni, non il gemito dei torturati e gli sghignazzi dei torturatori moltiplicati per sei milioni o anche solo per seimila o anche solo per sei… Poiché il messaggio era stato ridotto alla smisuratezza della cifra, non era arrivato per 33 anni alle orecchie, agli occhi e ai cuori. Affinché i fatti “arrivassero” era necessario che la limitazione al risultato e la “riduzione allo smisurato” fossero revo
cati. Ed è ciò che ora è stato fatto, qui sta il merito del film. Dobbiamo ringraziare questa bistrattata riduzione cinematografica se oggi in milioni e questa volta intendo, eccezionalmente, esseri viventi conoscono la verità. Mentre il semplice racconto dei fatti, persino il loro conteggio statistico, non sono riusciti a stimolare e a plasmare la capacità immaginativa, il film Holocaust lo ha fatto».
Di tutto questo si discuteva quarant’anni fa. Una volta era più facile distinguere fra realtà e rappresentazione (e magari riconoscere alla medesima un nuovo, fondamentale ruolo), ma da qualche tempo i media costituiscono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi reali» frequentati quotidianamente e in cui s’impara a interagire, ad acquisire modelli di comportamento, insomma a vivere. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta a un processo di elaborazione virtuale — messo in atto dal web — che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Da che punto delle questioni sollevate da Levi, da Baudrillard, da Anders dobbiamo ripartire?