Corriere della Sera - La Lettura
Sono Borsellino e sto morendo Ecco le parole che vi accusano
Ruggero Cappuccio porta a Milano la tragedia del magistrato. Impianto scenico di Mimmo Paladino
Palermo, via D’Amelio, 19 luglio 1992: un’esplosione, un uomo disteso sull’asfalto, il silenzio intorno. «Sono per terra. Non vedo altro che il cielo attraverso un velo di polvere. Sono finito. Sapevo che sarei finito. Guardavo da tempo al futuro della mia fine e la vedevo già trascorsa, già passata». Sono gli ultimi secondi di vita del giudice Paolo Borsellino, gli ultimi istanti in cui una persona, poco prima di chiudere gli occhi definitivamente, rivede tutta la sua esistenza. Ruggero Cappuccio ha immaginato i pensieri di quell’uomo che, pur dubitando di essere ancora vivo, nell’anticamera dell’aldilà passa in rassegna sogni, speranze, episodi, personaggi, amici e nemici nella sua Sicilia aspra e luminosa. Si intitola Paolo Borsellino. Essendo
Stato, lo spettacolo scritto e interpretato dall’attore napoletano, prodotto da Teatro Segreto, in scena al Franco Parenti di Milano dal 15 maggio. E per la prima volta vengono pronunciate in palcoscenico anche le parole con cui il giudice palermitano il 31 luglio 1988 denunciava con forza, davanti al Csm, l’inadeguatezza dei mezzi di contrasto attivati dallo Stato contro la mafia: «Il motivo delle audizioni sia di Borsellino, sia di Falcone, che sono state secretate fino a qualche anno fa e poi, finalmente, rese ostensibili — rivela l’attore-autore — fu dovuto al fatto che i due magistrati avevano reso delle dichiarazioni, raccolte da alcuni giornali, in cui affermavano di non sentirsi sostenuti nella loro lotta alla criminalità organizzata. Vennero dunque ufficialmente convocati dal Csm che li minacciò di provvedimenti disciplinari, proprio per aver osato fare tali esternazioni. I due “imputati” risposero alle domande per quattro ore di seguito ciascuno».
Un interrogatorio, in cui ricorrono i nomi delle numerose vittime: da Mattarella a Parisi, da Chinnici a Cassarà, La Torre... tutti omicidi eccellenti di Cosa nostra. Anticipa Cappuccio: «Borsellino usa parole chiare e molto dure. Dice fra l’altro: “Per quanto riguarda la situazione delle forze di polizia, denunciai l’avvicendamento continuo e adoperai una frase piuttosto pesante parlando di gioco delle tre carte, nel senso che quei pochi uomini che c’erano venivano fatti girare, ma erano sempre gli stessi... E allora o parliamo per enigmi dicendo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica, oppure che questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, citare i fatti e mettere il coltello nella piaga dicendo che c’è un organismo centrale delle indagini antimafia che attualmente non funziona più”».
La gestazione di questo spettacolo inizia nel 2003: «In origine non pensavo a un testo teatrale — racconta Cappuccio — semmai ero convinto di scrivere un diario immaginario su Borsellino, ma siccome nella stesura stavo toccando corde molto intime avvertii il bisogno di condividere i contenuti più profondi con chi aveva vissuto con lui, quindi presi un aereo e volai a Palermo per incontrare la moglie Agnese. Parlammo a lungo e le lasciai il testo. Seguì un mese di silenzio, poi Agnese mi telefonò scusandosi per il ritardo e dicendo che le era stato necessario del tempo per leggere una pagina al giorno: l’emozione che provava era ancora forte. Quindi mi confortò dicendo, bontà sua, che la mia era una ricostruzione della vita interiore del marito che non dava solo conto della dimensione thriller dell’attentato, il tritolo, il sangue, la guerra tra buoni e cattivi, bensì un ritratto intimo della sua figura di uomo».
Ma perché Cappuccio aveva deciso di raccontare questa storia? «In quel periodo mi stavo interrogando sulla vita politica e civile italiana, mi domandavo se esistesse una figura non retorica di eroe. Né Falcone né Borsellino si consideravano eroi e la differenza tra loro è solo una: mentre il primo immaginava che avrebbe potuto subire un attentato, ma non ne era certo, il secondo ne fu assolutamente certo. Dopo la morte del suo amico e collega, rimase solo e accerchiato. Sopravvisse a lui 57 giorni». Poco meno di due mesi, prima della fatidica esplosione, in cui il giudice si comporta con i familiari in modo strano. «Agnese mi racconta che, per esempio, non baciava più i suoi adorati figli, con cui in precedenza aveva sempre avuto un rapporto non solo affettuoso, ma epidermico. Inoltre, prima di partire per una breve vacanza con la famiglia, Borsellino abbracciò e baciò il portiere della casa dove abitavano: un gesto mai fatto prima e che la moglie colse come il sigillo di una parabola. Non solo: alla figlia Fiammetta, che sarebbe partita di lì a poco per un viaggio in Africa, chiese di non prenotare in hotel o villaggi dove fosse difficile raggiungerla telefonicamente e aggiunse: “Quando sarò ucciso, voglio che tu sia avvisata”».
Nella messinscena, la manciata di secondi che trascorre tra la vita e la morte si dilatano in un monologo intenso, doloroso: «Borsellino è un uomo che accetta l’idea di morire: “Essendo stato” in quanto uomo e in quanto rappresentante di uno Stato giusto. Aveva una solida formazione cristiana e di conseguenza non credeva nella morte, ma era anche mosso da una totale abnegazione per il lavoro e il senso della giustizia. Quella giustizia che vede negata! E nelle audizioni denuncia anche questo: “I processi vengono assegnati senza nessun criterio, o meglio senza un criterio da noi conoscibile... per chiudere poi con una bellissima sentenza contro ignoti. Ci trastulliamo con vicende che non meriterebbero nessuna attenzione, mentre sui nostri problemi non riusciamo a concentrarci. C’è un senso di scoraggiamento... mi sento accerchiato da una serie di colpi di spillo, che non mi fanno muovere...”».
Siamo alla resa finale: «Quale condanna è più amara? — conclude Cappuccio immaginando le parole del giudice nei suoi ultimi istanti di via — Quella che arriva da Roma in carta bollata o quella che mi raggiunge al telefono con la voce roca di un picciotto? È bifronte. Lo Stato mi dice: l’unico modo per salvare la tua vita è ignorare quello che, sai bene, si deve ignorare. Io non potrò difenderti, io non vorrò difenderti. Oltre questo limite lo Stato mi condanna a morte. La mafia è la morte con il passaporto». Sipario.