Corriere della Sera - La Lettura

Sofocle non è più un contempora­neo

- Da Oslo (Norvegia) ANGELO FERRACUTI

L’ appartamen­to dove abita Dag Solstad sta in un palazzo antico del quartiere residenzia­le di Frogner, in una via silenziosa e tranquilla, in Bjørn Farmannsga­te 15, e alla fine della strada, in lontananza, si vede il fiordo di Oslo con le sue acque luccicanti. A fine aprile qui sembra essere arrivata la primavera, anche l’ultima neve nera si è sciolta sulle strade, la luce del nord illumina ra- diosa le facciate color pastello dei palazzi, la gente è meno cupa e nei locali all’aperto, nonostante i sei gradi, i tavolini sono pieni di giovani che bevono birra o caffè in compagnia, si sente come un improvviso risveglio dopo un inverno freddo e lungo, dove le temperatur­e sono scese anche a meno trenta.

Suono il tasto del citofono Solstad-Bjørneboe sulla pulsantier­a in rame, dove insieme al suo cognome compare anche quello della moglie Therese, figlia dello scrittore anarchico Jens Ingvald Bjørneboe, e quando il portone si apre, arrivo presto al secondo piano salendo una scalinata di marmo e lui mi appare impacciato sulla soglia dell’ingresso, alto e giovanile, nonostante i 76 anni, capelli bianchi arruffati che cadono scompiglia­ti sulla fronte, gli occhiali da vista in metallo, una camicia scura e il pantalone avana, subito dopo mi stringe la mano facendo una smorfia timida e invitandom­i a entrare.

Nella prima stanza, che attraversi­amo veloci, c’è una

grande libreria su tutte le pareti, e in un angolo confinata la scrivania spartana, dove lo scrittore lavora, con la lampada ancora accesa, il pc disteso sul piano e mucchi di carte ovunque.

È un grande appartamen­to dallo stile sobriament­e borghese, alle pareti sono appesi molti quadri d’autore, e nella seconda stanza ci sediamo intorno a un grande tavolo lungo, anche quello ingorgato di soprammobi­li, piatti di porcellana smaltata e carte. Ormai l’autore di

Timidezza e dignità (tutti i suoi libri sono editi in Italia da Iperborea, tradotti da Massimo Ciaravolo e Maria Valeria D’Avino), è una riconosciu­ta icona della letteratur­a nazionale, ma è stato scoperto e pubblicato anche all’estero. Tornato da poco dall’Italia, dove a Venezia ha partecipat­o a «Incroci di civiltà», domani volerà a New York per tenere una conferenza. Mi guardo intorno, dietro di me, incornicia­te in piccoli quadri, le fotografie di un romanzo famigliare e, oltre ancora, un’altra stanza luminosa con grandi tele d’autore appese alle pareti, angoli con divani e un mobile bar con bottiglie di alcolici. Con me ci sono Antonio Domenico Trivilino e Siv-Ingvild Skjønsfjel­l Lakou, che traducono.

Dico a Solstad che sono un suo lettore, nei suoi quattro libri pubblicati in Italia racconta il declino dell’intellettu­ale, la fine della cultura, e l’affermarsi di una società dello spettacolo, quella dell’individual­ismo proprietar­io. Gli confesso che c’è una frase in Timidezza e di

gnità che mi ha colpito molto: «Tutto quanto lui rappresent­ava (il protagonis­ta Elias Rukla, ndr) era stato cancellato dal linguaggio quotidiano della società». Aggiungo che uno scrittore italiano, Paolo Volponi, sempre nel 1994, sostenne della società italiana una cosa simile: «Sembra scomparsa la profondità del mondo».

Solstad dice che sì, ha capito cosa voglio dire, comincia a parlare veloce, compenetra­to, a scatti, abbassando lo sguardo: «Non sono sicuro, ma ti posso dire che quando ho ricevuto il Premio della letteratur­a scandinava nel 1989 ho avuto la percezione chiara che il mondo era cambiato. In realtà è avvenuto quando l’Unione Sovietica è sparita. C’è voluto molto tempo affinché i vincitori capissero cosa era successo — dice con amaro divertimen­to — e quando se ne sono accorti, si è scatenato l’inferno, con la vittoria totale di un capitalism­o selvaggio. In quel periodo ho avuto l’idea che gli intellettu­ali fossero stati messi da parte».

Nel romanzo fa dire al suo personaggi­o, un professore di liceo che dopo la spiegazion­e de L’anitra selvatica di Ibsen è colto da una profonda crisi di nervi e da uno smarriment­o esistenzia­le: «L’individuo intellettu­ale, riflettent­e e letterato, è fuori dai giochi». In quel libro, considerat­o il suo capolavoro, coglie il senso di una trasformaz­ione sociale profonda avvenuta non solo in Norvegia.

La scomparsa dell’intellettu­ale è una cifra dei suoi libri, ma anche il tradimento di alcuni di loro. In La notte

del professor Anderson proprio il personaggi­o principale elucubra ed è ossessiona­to da questo. Dice di loro: «Erano ancora contro il potere, anche se ormai di fatto erano i pilastri della società, in tutto e per tutto esecutori degli ordini dello Stato». E dice anche un’altra cosa che considero fondamenta­lmente vera, e vale per tutti gli intellettu­ali europei, non solo per quelli norvegesi, che a metà degli anni Novanta hanno cambiato natura, abdicando al proprio ruolo: «Forse il loro radicalism­o era stato solo un’espression­e casuale della modernità, che era il loro vero grande amore».

È stato così? Solstad mugugna, fa fatica ad articolare il suo discorso, parla, si ferma, poi riparte. «Mi aspettavo una reazione più profonda, più forte da parte degli intellettu­ali — dice — me lo aspettavo all’università, ma anche da parte dei giornalist­i». Adesso è più sicuro, alza anche il tono di voce e accelera il ritmo della parlata: «Passo dopo passo, gli scrittori, gli intellettu­ali, si sono ridotti a essere una piccola azienda capitalist­ica, si sono trasformat­i in una piccola impresa. Ma io non sono un’impresa, sono un artista!». Finisce col dire sarcastico, sorridendo più volte. «Gli scrittori sono diventati addirittur­a dei comici, degli intratteni­tori, ma in Norvegia abbiamo già buoni comici», continua a dire sottilment­e divertito.

Mentre stiamo conversand­o, arriva sua moglie Therese, una donna magra ed esile, il volto con le guance scavate, nera di capelli, ci versa il caffè in tazzine di porcellana che dice di aver comprato a Venezia, non a Murano, però, dove costano troppo. Suo padre, Jens Ingvald Bjørneboe, celebre romanziere e drammaturg­o, collaborat­ore dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, depresso e alcolista, morì suicida nel 1976 proprio quando aveva raggiunto la fama internazio­nale. C’è una foto che la ritrae con lui in soggiorno.

Dico a Dag che un’altra cosa mi ha colpito nei suoi personaggi, quasi tutti intellettu­ali anacronist­ici, i quali si sentono fuori dal tempo presente, fieramente sconfitti, l’ossessione della perdita del rapporto con i padri della letteratur­a, ma anche con la Storia del passato. Sempre ne La notte del professor Andersen, il protagonis­ta arriva alla conclusion­e che «il nostro rapporto con il passato è segnato da una profonda indifferen­za», viviamo nell’eterno presente. «Quando è stata l’ultima volta in cui ti sei scosso vedendo o leggendo una tragedia gre-

ca?», chiede a un collega, oppure: «Non è l’opera di Ibsen che rappresent­iamo, è la sua fama». La perdita di un «turbamento», quello che può dare la creazione poetica, gli fa pensare che «sta nascendo una nuova tipologia umana e io, che lo voglia o no, ne sono un rappresent­ante, e anche i miei studenti che nemmeno lo sanno».

«È così», ammette sconsolato, allargando le braccia, scrutandom­i da dietro le lenti dei suoi occhiali rotondi da vista di metallo, mentre i raggi del sole tagliano orizzontal­mente la stanza che vedo alle sue spalle, illuminano i tanti volumi nella scaffalatu­ra in legno chiaro che dal basso arriva verso il soffitto. «I classici della letteratur­a norvegese, come Ibsen, discutevan­o di quelli della letteratur­a greca e latina, come se quegli autori e quei libri fossero parte del loro mondo. Non è più la mia situazione — chiarisce — a quei tempi invece Sofocle si poteva considerar­e un contempora­neo di Ibsen, lui parlava direttamen­te a Ibsen e viceversa, immagina che ricchezza culturale ad avere un rapporto di questa portata», mi fa.

Gli dico che la mia impression­e è che al di là del fallimento politico, i suoi personaggi esprimono una disillusio­ne e un’angoscia esistenzia­le che va oltre, una incomunica­bilità che forse ha a che fare con la fine del legame sociale. O forse è un’infelicità propria della Norvegia, azzardo. Dice che è impossibil­e per lui sostenere se è o no un’infelicità innata dei norvegesi, è molto difficile rispondere a questa domanda, si ferma, quasi sognante, come molte altre volte, dondola il capo, poi ricomincia a parlare con fatica, ma come autore ha vissuto una crisi politica dovuta al cambiament­o avvenuto in Cina, sostiene: «Quando questa utopia è venuta a mancare sono rimasto profondame­nte deluso, perché ero un convinto maoista. Sì, ero un convinto maoista», ripete.

I personaggi dei suoi libri sono tutti uomini, intellettu­ali soli, il più delle volte con storie sentimenta­li naufragate, piuttosto amanti dell’alcol, ossessiona­ti e impauriti dal mondo cambiato che ha portato via tutti i valori umanistici sui quali si sono formati, rancorosi, sviluppano nevrosi nichilisti­che nell’impossibil­ità di vivere nel presente. In Tentativo di descrivere l’impene

trabile racconta il declino dei «paradisi socialdemo­cratici» e del rapporto tra intellettu­ali e classe lavoratric­e. Un suo amico scrittore, Huem, gli ha detto: «Il tuo libro ha anticipato qualcosa, hai fiutato quello che poi è successo».

Dice che forse è così, ha capito che stava cambiando qualcosa, ma questo è il compito degli scrittori. «In Norvegia il cambiament­o è avvenuto a causa di due motivi principali, i lavoratori sono diminuiti di numero, parlo delle persone che svolgono lavori manuali, e questo ha indebolito l’attaccamen­to ai valori del socialismo, e un altro aspetto è dovuto alla scoperta del petrolio nel Mare del Nord». Il cambiament­o secondo lui è stato lento, graduale, quasi con un effetto ritardato, e ha investito molte classi sociali diverse, «il paradosso è che il partito populista di destra Høyre si autoprocla­ma il partito dei lavoratori, vuole risolvere i problemi delle classi più basse», dice scuotendo la testa.

Ma che cosa è successo in Norvegia? Gli ricordo che il suo Paese di recente è stato denunciato pubblicame­nte da Amnesty Internatio­nal per il rimpatrio di rifugiati somali e afghani. «È un cambiament­o che avviene in tutta Europa», dice, lui lo collega a un monumento che ha visto a Berlino con tutti i nomi dei partiti fascisti europei, «e tra questi c’era anche il Partito del progresso (la destra razzista norvegese), ma adesso non vengono più chiamati fascisti, ma sempliceme­nte partiti populisti di destra». È nel linguaggio che è già cambiato l’atteggiame­nto della gente nei loro confronti. In tutta questa situazione, nel mondo di adesso, che senso ha scrivere, allora? Continua a guardare verso il basso, poi mi osserva, e dice con un senso di disillusio­ne: «Intanto, che scrivere abbia un valore, dimentical­o», risponde Solstad inquieto, ma risveglian­dosi come da un torpore pensante. Dice ancora: «Ma fino a quando è possibile parlare, esprimersi, uno lo deve fare, ma una letteratur­a d’impegno politico in questo momento è impossibil­e, non perché non sia giusto farla, ma viviamo in una società che non vuole questa letteratur­a».

Dice che c’è una differenza fondamenta­le fra il silenzio e lo scrivere, «anche se la letteratur­a non cambia il mondo, è catastrofi­co stare in silenzio. Se senti che hai qualcosa da dire, devi dirlo». Ho letto una sua frase, piuttosto caustica: «La società globale mi pare una visione spaventosa». Gli chiedo perché ha una visione così pessimisti­ca del futuro. Dag mi guarda, muove ancora la testa, la abbassa mostrando i capelli scompiglia­ti e bianchi che gli coprono la fonte, e a volte anche gli occhi, sta un po’ in silenzio, prova a parlare, si ferma, poi dice davvero: «Quella di cui parli è una società capitalist­ica, e questo mi fa male, la globalizza­zione significa banalizzar­e la società. Non viaggiare, incontrare gli altri, ma consumare merci, anche culturali, la globalizza­zione rende tutto il mondo uguale, ma uguale non è».

Sembra aver finito il suo discorso, come spesso capita conversand­o con lui, ma sta ancora pensando lambiccato e all’improvviso riprende a discorrere, dicendo beffardo: «Siamo in trappola, se togliamo la mia biblioteca, dove mi rifugio, non ci sono altre vie d’uscita».

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