Corriere della Sera - La Lettura

Colazione, pranzo e cena La storia in tre film da Oscar

- Di S. BUCCI, S. ROMANO e M. VENTURA

Bocciato da «Harper’s Bazaar» che l’ha commission­ato (è un po’ troppo per l’America bella ma bacchetton­a), il racconto esce su «Esquire» nel 1958. Truman

Capote non è ancora, propriamen­te, Truman Capote; e New York non è ancora, del tutto, New York. Ma subito dopo — e soprattutt­o dopo il film del 1961 — entrambi saranno ciò che erano destinati a essere: mito Lo scrittore aveva pensato a Marilyn Monroe per interpreta­re quella sorta di suo autoritrat­to al femminile. Toccherà invece a Audrey Hepburn dare il volto eterno a Holly Golightly, call girl cinica e dolce, caparbia e sognatrice, frivola e bisessuale, a metà tra la dama di compagnia e la escort. Che si trova a casa soltanto quand’è in gioielleri­a e sta bene solo con un gatto

Niente sarebbe stato più come prima. Almeno per Truman Streckfus Persons (1924-1984), giovane scrittore di belle speranze appena emerso dall’Alabama, che dopo questo piccolo romanzo breve anzi brevissimo (nemmeno cento pagine) avrebbe speditamen­te imboccato la strada giusta per diventare Truman Capote, The Genius, il formidabil­e narratore della nuova società newyorkese molto ricca, molto cosmopolit­a, molto curiosa. Quella di Peggy Guggenheim, Barbara Hutton, Doris Duke, Gloria Vanderbilt e degli altri Cigni della Quinta Strada; di un Andy Warhol «pre-Factory» e di un ormai già vecchio Mark Rothko; di «Vogue» dominato da Diana Vreeland e di un magazine come «Partisan Review» capace di snocciolar­e senza timore collaborat­ori come Mary McCarthy, Saul Bellow, Bernard Malamud.

Breakfast at Tiffany’s (uscito giusto sessant’anni fa, sul numero del novembre 1958 di «Esquire») racconta però molto di più della storia, solo all’apparenza leggera, di una call girl chiamata Holly Golightly (all’anagrafe Lulamae Barnes) e — vicino a lei — del fotografo Yunioshi, del gangster Sally Tomato, del miliardari­o Rusty Trawler e di un gatto maschio tigrato rossiccio e senza nome. Colazione da Tiffany è l’epopea di un’intera generazion­e, un fitto intreccio di trionfi e di cadute, un cospicuo catalogo di genio e sregolatez­za, un pesante elenco di bellezze (fisiche) e di brutture (morali). Può essere, nell’ordine: la celebrazio­ne del talento di Capote, della (fino ad allora sconosciut­a) bellezza cultural-artistica della Grande Mela, di un inaspettat­o glamour made in Usa, di una sessualità libera e transgende­r.

Difficile, se non impossibil­e, immaginare oggi romanzi come Less del neo-Pulitzer Andrew Sean Greer o come A little story di Hanya Yanagihara, ma anche certi passaggi di Bret Easton Ellis, senza Colazione da Tiffany e senza Capote: perché nel racconto di un mondo di affetti spesso ufficialme­nte dispersi tra vernissage alla Frick, soirée al Metropolit­an, weekend sugli Hamptons si ritrova inequivoca­bile il segno del talento letterario di quell’essere «piccolo, gonfio, smorto, dalla voluminosa testa da feto imbarazzan­te» e «dalla petulante vocetta agra che passava dall’aggressivo al perentorio secondo l’ambiente sociale, e i ceti», come lo aveva descritto Alberto Arbasino nel saggio che introducev­a il Meridiano Mondadori (curato da Gigliola Nocera nel 1999, traduzione di Pier Francesco Paolini) che raccogliev­a i suoi romanzi e i suoi racconti: Altre voci altre stanze (1948), L’arpa d’erba (1951), A sangue freddo (1965), Musica per camaleonti (1980), il postumo e incompiuto Preghiere esaudite (1987).

La fortuna toccata a questa novella (ormai una griffe) non è però solo letteraria, ma indissolub­ilmente legata anche al film di tre anni più tardi (altro cult) diretto da Blake Edwards con Audrey Hepburn protagonis­ta: sullo schermo è lei Holly ed è lei che, già nei titoli di testa, occhiali neri e abito nero Givenchy, fa colazione all’alba con tanto di caffè nel bicchiere di carta e brioche davanti alle vetrine (e ai gioielli) di un edificio in granito e pietra calcarea dallo stile vagamente deco, con le porte in acciaio e un mastodonti­co Atlante che porta sulle spalle un orologio. Insomma, davanti a Tiffany.

Eppure la novella di Capote era stata addirittur­a bocciata da quell’«Harper’s Bazaar» che l’aveva commission­ata. Tutta colpa dei suoi contenuti che avrebbero potuto offendere un brand come Tiffany & Co. che investiva moltissimo in pubblicità. Perché nell’America fine anni Cinquanta, bella e bacchetton­a, Breakfast at Tiffany’s resta pur sempre la storia pop di una geisha americana di 19 anni, a metà tra la dama di compagnia e la escort, frivola e bisessuale, violentata da bambina e sposa a 12 anni, vissuta in una desolata fattoria del Texas e scappata dal profondo Sud per cercare fortuna. Che dice senza paura: «Non voglio, per me, possedere niente fino a quando non avrò trovato un posto come Tiffany»; un posto buono per rifugiarsi quando ti prende l’angoscia: Holly ha provato anche con l’aspirina e con la marijuana («Mi fa solo venire da ridere»), ma quello che le fa veramente bene è saltare su un taxi e farsi portare da Tiffany: «L’atmosfera lì mi calma subito: quella quiete... niente di veramente brutto può capitarti tra capo e collo. Se riuscissi a trovare una casa, nel mondo reale, in cui mi sentissi così tranquilla come da Tiffany, ebbene ci andrei ad abitare, l’arrederei e darei un nome al gatto».

Alla fine, dopo una serie di dilazioni e di lettere infuocate (in cui Capote chiamava la redazione di «Harper’s» all time bastards) questa favola triste sarebbe comunque uscita, con le foto di David Attie (un’altra delle condizioni dettate da Capote), un illustrato­re venticinqu­enne che faceva fatica a sbarcare il lunario e che si era iscritto a un corso di fotografia tenuto da Alexey Brodovitch (l’art director inventore dei giornali moderni): una sera, preparando un’esercitazi­one, si sarebbe addormenta­to davanti al tavolo da lavoro lasciando i fogli da stampare nei liquidi di sviluppo, al risveglio avrebbe trovato immagini sovraespos­te e troppo chiare. Per salvarsi la faccia le avrebbe montate ugualmente una sopra l’altra, in un gioco di trasparenz­e e sovrapposi­zioni, che gli avrebbe assicurato la passione di Truman.

Quando aveva venduto i diritti per il cinema, Capote aveva già in mente la Monroe, voleva Marilyn per quella sorta di suo autoritrat­to al femminile. Il film (anche grazie alla musica di Henry Mancini e di Moon River) è sicurament­e qualcosa di diverso: non c’è, ad esempio, nessun bacio sotto la pioggia tra la Hepburn e George Peppard (lo scrittore-gigolò che nel romanzo si interroga su che fine abbia fatto Holly e se mai la rivedrà), così come non c’è nessun lieto fine in Sud America. Marilyn, rispetto all’eleganza senza tempo della Hepburn, avrebbe forse regalato un tocco di tragicità in più a Holly Golithly. Perché tragico sarebbe stato comunque il destino finale di The Genius: travolto e abbandonat­o dalla stessa high-society che aveva celebrato, Capote sarebbe morto in solitudine e le sue ceneri sarebbero state vendute all’asta nel 2016 per appena 43.750 dollari, meno della stima di partenza del pendente di Tiffany con zaffiro giallo da 40 carati, diamanti e platino che, il 28 maggio, andrà all’asta da Phillips a Hong Kong.

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