Corriere della Sera - La Lettura
TANTE DISTOPIE MA SERVE L’UTOPIA
Il romanzo oggi è romanzo distopico? Di certo è impossibile non incontrarne. Finite le presentazioni al Salone del Libro, faccio il mio solito giro. Stand Giuntina, di solito prodigo di memoir sulla Shoah e classici della letteratura ebraica; mi arriva invece Il terzo tempio di Ishai Sarid, Tel Aviv e Haifa distrutte da atomiche arabe, una nuova teocrazia giudaica… Stand Black Coffee, si parla molto dell’Alfabeto di fuoco di Ben Marcus, vediamo la bandella… «In un’America apocalittica si è diffusa una piaga mortale…». Arrivano da ogni lato, «escono dalle fottute pareti», si potrebbe dire citando un classico della sci-fi «dura». Escono anche bene: la stagione distopica italiana ci ha dato gioielli come Miden di Veronica Raimo o L’urlo di Luciano Funetta, e forse è inevitabile; forse, in una realtà come quella che ci ritroviamo, la distopia è l’unico realismo possibile, come ebbe a dire il padre del cyberpunk William Gibson, ma proprio per questo sarà opportuno andare dai Volodine o dai Krasznahorkai, che già da tempo costruiscono metafisiche sulle macerie, o invocare ciò che servirebbe per ricominciare a immaginare il futuro e non solo il presente: un nuovo, grande, autore di utopie.