Corriere della Sera - La Lettura
La vecchiaia è come la pioggia Opere
Elizabeth Taylor è stata una scrittrice inglese che ha narrato l’ultima parte della vita senza viverla «Mrs Palfrey all’hotel Claremont» è un romanzo di insinuante tristezza. «Diventare anziani è naturale»
Elizabeth Taylor nelle foto appare come una signora molto inglese. Anche pensando all’altra Elizabeth, è più bella che brutta, in lei colpisce la bocca, quelle labbra così fini, quasi assenti. Era nata nel 1912, era stata sposata, aveva avuto dei figli. Il marito aveva combattuto nella Raf, lei viveva in campagna, faceva la bibliotecaria. Ma perché era morta così giovane, a sessantatré anni? La vecchiaia non ebbe modo di viverla. Si limitò a scriverne. O a guardarla intorno a sé, a sentirsela precocemente addosso. Non si può dire. Non disponendo di altri mezzi (fonti), come lettore italiano, come lettore dilettante, non potrei che avanzare ipotesi leggendo i sei romanzi di cui dispongo.
Mi sono fatto questa idea: nel primo, A casa di Mrs Lippincote (storia di un temporaneo trasferimento fuori Londra durante la guerra di parte della famiglia: il marito Roddy è in aviazione), Taylor la si percepisce come appassionata. Eleanor, cugina del marito, alla fine di una riunione in un salotto dove erano ben visibili i ritratti di Lenin e Marx, dice a uno dei presenti: «No, non sono soddisfatta per nulla. Né del mondo degli altri né del mio. Come tutte le persone uguali a me, io sono sola. Quello che ho notato è che invece voi, soli, non lo siete mai. Vi stancate, discutete, finite anche per litigare, ma non siete soli, e a parte tutto vi volete bene, dipendete l’uno dagli altri e vi fate coraggio a vicenda. Così dovrebbe essere la vita secondo me».
Non è abbastanza per pensare la Taylor come una socialista, o una laburista, comunque una donna di fede. È abbastanza per rilevare un sentimento, una necessità: nonostante la famiglia, il senso di una privazione. Dopo, di un simile slancio, di un abbandono così doloroso, non c’è più traccia. Dopo, non c’è che un occhio lungimirante, non c’è che lo sguardo di una limpida ritrattista, a volte compaiono in scena satira e sarcasmo. Ciò che Taylor ritrae è la postura di una società media e convenzionale, affetta da manie, da abitudini inveterate, da sentimenti classisti — dell’alto e del basso, che si direbbero ineluttabili. Nulla li cambierà. Non vi sarà una qualche rivelazione che offra conforto alla solitudine. Dominante è la critica, anche nei confronti della propria vocazione: in Angel, la protagonista è una scrittrice di successo prima e, con il passare degli anni e delle mode, di insuccesso poi. È una antisocialista dichiarata che a un amico così appare a distanza di tanti anni dal loro primo incontro a Londra: «Era tuttora arrogante e assurda come all’epoca. Aveva scansato le amicizie, era rimasta sola e aveva eretto dentro di sé tali e tante fortificazioni che la verità non riusciva a raggiungerla».
La scrittrice Angel è il contrario esatto di ciò che Eleanor avrebbe voluto per sé. Ma già in Angel, che è del 1957, quando la Taylor aveva quarantacinque anni, il tema della vecchiaia, quella della protagonista, si manifesta — benché sotto specie di impietoso s a rca s mo: l ’ i nvecc hi a mento del l a scrittrice di successo è, ovviamente, meno di una profezia o di un augurio e, però, più che un mero frutto della mente. Ricomparirà nell’ultimo romanzo, La colpa, nella specie della vedovanza, di una più lancinante solitudine, di una impossibile lotta con il tempo: impossibile perché dovrebbe passare in fretta e perché non passa mai. Ed era già comparso anche sotto specie di simbolo in Una ghirlanda di rose del 1949. Tre donne, due giovani e una anziana, trascorrono insieme tutta un’estate. Ognuna delle tre ha il suo personale problema con gli uomini. Camilla è sola e poi corteggiata da un tizio che incontra alla stazione — un uomo qualunque. Liz ha un marito che porta con sé i problemi che può portare un uomo di chiesa: felice d’essere sposata, Liz è tuttavia infelice. Anche Frances, un’anziana pittrice, ha chi la corteggia; ma il suo pensiero dominante è: «L’errore è di ascoltare gli altri. Quando uno ha qualcosa di suo gli altri glielo strappano via con la loro gentilezza e con i loro buoni consigli. È meglio non rivolgersi a nessuno, non cercare di piacere a nessuno, dipingere come se ci fossimo soltanto noi al mondo. Il piacere degli altri è un sottoprodotto». Il pensiero dominan- te di Frances, guardando un quadro che rimarrà incompiuto, è rivolto a Ofelia: «Sembra Ofelia quando distribuisce i fiori. Quel suo terribile penultimo gesto… Sì, Ofelia!» E così continua la narratrice: «Sul banco c’era la ghirlanda di rose che aveva intrecciato il giorno prima. La raccolse: i petali erano morbidi, appassiti e caldi di sole. “Non dipingerò più”, decise. “È ora di finirla”».
In Mrs Palfrey all’hotel Claremont il pensiero, la valutazione, il sentimento della vecchiaia occupa per intero la scena. Lo schema narrativo è sempre lo stesso, dal primo all’utimo libro: brevi capitoli, dialoghi fatti più di sottotesto che di testo, passaggio da uno ad altro personaggio in luoghi diversi e in pensieri opposti più o meno in uno stesso momento; e una coda brevissima, quasi un saluto — però lasciato in sospeso: come per dire: non finirà così, non qui, non si sa mai quello che può venire. Alla signora Palfrey accade di rimanere vedova dopo quarant’anni di matrimonio e al mondo non ha che un nipote, tale Desmond, che non vede mai. Così decide