Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo in una stanza Nelle mani di Filippo II
Governare il mondo dal chiuso del monastero-fortezza dell’Escorial. Sta tutta qui la vicenda di uno dei più grandi sovrani di Spagna, Filippo II d’Asburgo? Certamente no. Ma l’immagine intriga, ci parla di una vita sospesa tra solitudine e dominio universale. Questa è la chiave di lettura che ha scelto Angelantonio Spagnoletti nella biografia Filippo II (Salerno): un’opera spuria — e proprio per questo più bella e avvincente — perché priva dello schema cronologico classico. Con una struttura che si dipana come una sorta di ragnatela, a cerchi concentrici: da Filippo e il suo ego per crescere fino ad esplodere verso l’esterno, con i capitoli finali dedicati alla politica estera del sovrano e alla sua prospettiva globale.
Una vita unica, quella di Filippo II. Un vero e proprio oggetto totalizzante, che marca il proprio tempo in profondità. Personaggio che fu uno e tanti insieme. Il padre e marito di quattro mogli che antepose sempre la ragion di Stato a quelle familiari. Il prudente, ma severo sovrano che regnò a lungo, più di quanto ebbero la fortuna di fare tutti gli altri monarchi europei contemporanei. L’uomo di estrema fede religiosa. L’integerrimo difensore della Chiesa e protagonista della Controriforma. Il sovrano orgoglioso di appartenere a una grande dinastia e di essere il reggitore di una potenza mondiale che faceva perno su una penisola iberica finalmente unificata. Il re che si sentì sempre e innanzitutto funzionario dello Stato. Lo stakanovista che ascoltava tutti, ma decideva personalmente. E anche il contrario: l’invidioso, il simulatore, l’uomo incapace di dimenticare, vendicativo, propenso alla crudeltà.
Questo fu Filippo. E tanto altro ancora. E, per quanto ci appaia lontano per il suo orizzonte psicologico, mentale e sociale, condiziona ancora la vita del nostro mondo. Non fu infatti, lui, il grande promotore del l a c r i s t i a ni z z a z i one del l e Americhe e delle isole che da lui presero il nome, le Filippine? Non è suo, della sua volontà politica, il lascito culturale del castigliano, oggi tra le lingue più diffuse del pianeta? Non fu lui il primo sovrano davvero globale, che, con l’apertura dagli anni Settanta del Cinquecento della trat- ta che dal porto di Acapulco, in Messico, conduceva a Manila, vide schiudersi davanti ai suoi occhi la rotta commerciale transoceanica intorno al mondo?
Visse circa 71 anni, Filippo. Tra il 1527 e il 1598. Il più longevo della sua dinastia (il padre, l’imperatore Carlo V, quando morì, ne aveva appena 58). Però pure il più spagnolo. Non solo perché, a differenza dei suoi antenati, che erano nati in Fiandra, era di Burgos. Il fatto è un altro: che a forgiare la Spagna moderna fu proprio lui. La decisione di puntare sulla centralità della Spagna fu, infatti, sua. Egli stabilì, spiega Spagnoletti, di far nascere «un centro che avesse la capacità, grazie all’opera del sovrano e degli uomini che sedevano nei suoi Consejos, di trasmettere gli impulsi politici in periferia e di rendere quest’ultima partecipe delle decisioni del centro come se fossero state da essa assunte». Una scelta naturale, fondata sul principio che un sovrano «il quale posseda più città, o più Stati, non potendo risiedere in tutti, ma in uno solo, deve eleggersi per sua stanza ordinaria quel Stato, che ha i popoli più fedeli, e (se è possibile) che è più ricco, e più abbondante di tutte le cose necessarie», come scrisse nel Seicento Girolamo Frachetta. Un centro che non poteva essere l’Italia o le Fiandre, ma la Castiglia: il luogo di nascita, di formazione, di apprendistato all’arte del governo di Filippo II, anche a costo di abbandonare a gente di scarso profilo i pezzi più pregiati dei suoi domini.
La Castiglia: cabeça de España, la testa di Spagna, che nel 1590 aveva quasi sei milioni di abitanti a fronte del poco più di un milione dell’Aragona. In cui erano presenti le maggiori città della penisola (Siviglia, Granada, Toledo) e la sempre più crescente per influenza Madrid, la vera e propria opera d’arte del sovrano. Come sua fu la creazione dell’Escorial: il gigantesco complesso, mezzo castello e mezzo convento, che egli, a partire dal 1563, fece edificare alle pendici della Sierra de Guadarrama, a sette leghe dalla città. Un monumento a sé stesso. Spropositato, sovradimensionato.
Si dice che Filippo governasse da qui. Da una stanza. Quasi nascosto. Silenzioso, «con così poco rumore — sottolinea Cabrera de Córdoba — che sembrava che non ci fosse». Che agisse quasi come un oracolo, consapevole di essere la mente al cui servizio operava una piovra dal potere amplissimo. Burocratica: con la sua rete di segretari, funzionari, uomini di governo, viceré, amministratori, ambasciatori. E militare: col suo esercito e la sua flotta, tra le più potenti esistenti. Entrambe, amministrazione e forza armata, appendici basilari. Che operarono su uno scenario internazionale da far paura. Filippo infatti doveva controllare il quadrante mediterraneo contro i turchi; assicurare l’egemonia spagnola in Italia; collaborare con le aspirazioni del ramo imperiale della famiglia Asburgo; difendere a oltranza la propria sovranità laddove era messa in discussione, come nei Paesi Bassi; ripristinare il cattolicesimo in Inghilterra; organizzare i territori nel Nuovo Mondo eccetera.
Il re lavorò su tutti questi fronti, spesso in contemporanea, con ogni energia disponibile, combattendo guerre su guerre, sebbene l’immagine della storiografia spagnola, e non solo, tramandi l’immagine di un Filippo II pacifico, costretto dalla necessità ad impegnarsi nella guerra. Un pacifismo strano: armato, repressivo e mai rinunciatario, nel quale si mescolavano aspirazioni politiche e tendenze confessionali, spirituali e ideologiche. Con grandi alti e bassi. Vincitore a Lepanto, contro i turchi nel 1571. Repressore violento nei Paesi Bassi. Perdente inaspettato al largo dell’Inghilterra con l’Invencible Armada, nel 1587.
Filippo muore nel 1598: brutto anno, ricco di prodigi, di eclissi, di presagi oscuri. Il culmine di altri anni terribili di declino spagnolo, segnati dalla bancarotta del 1596. L’agonia del re fu molto dolorosa e durò mesi. Il 13 settembre, il «Salomone della Spagna» si spense. Da quel momento, due letture si susseguono, di pari passo: quella dei fautori della «leggenda nera», del re che sacrifica perfino il figlio, don Carlos, per la ragion di Stato. E, l’altra, del re prudente, con l’immagine apologetica del sovrano costruttore della grande Spagna e del suo mito. Ma ciò che resta di più nel ripensare Filippo II è l’enigma del potere. Di un uomo che, nella solitudine della sua stanza, cercò di contenere il mondo nelle sue mani.