Corriere della Sera - La Lettura

Ispirazion­i sghembe: le elezioni del ’94, il G8

Eugenio De Signoribus si muove tra le sue «Stazioni» nelle spirito delle «rime petrose»

- Di DANIELE PICCINI

Un libro di frantumi, brani, spigolatur­e, eppure costituito in unità, in struttura, avvinto da un respiro: così si potrebbero descrivere le Stazioni del marchigian­o Eugenio De Signoribus, da poco edite da Manni.

Sono per l’appunto scaglie, episodi, sgorghi occasional­i, che però l’autore riscrive a distanza e monta in una intelaiatu­ra: 14 elementi più un congedo nella prima parte o anta (ma alcuni poemetti sono microseque­nze), altrettant­i più un ulteriore congedo nella seconda. Le occasioni esterne sono per un poeta un modo per re- stare all’interno del proprio discorso, costeggian­done i bordi, i confini. Così è per De Signoribus, che usa gli spunti civili e politici che ispirano vari testi (dalle elezioni del 1994 al G8 di Genova ai drammi ambientali) per abitare con più insistenza e travaglio che mai la propria parola appuntita e sghemba, desolata.

Sono infatti stazioni dolorose: dallo stupore tradito dell’infanzia («I bambini umiliati/ sono soli davanti alla meraviglia dell’universo») all’inerme che soccombe, fino alla marea montante di un «progresso» che il poeta vive — tra Giaco- mo Leopardi e Pier Paolo Pasolini — come falso, illusorio. Ma il cuore del libro è nel sentimento della parola: non per caso varie occasioni sono fornite proprio dagli omaggi ai maestri (Paolo Volponi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici). C’è perciò un forte senso artigianal­e del fare poetico: l’illuminazi­one deriva dall’aderire alle sedimentaz­ioni della lingua, alla matericità delle forme. E dal lasciare che all’improvviso, dal lavorio su un materiale che pare inerte, si liberi un fiotto di energia, una rivelazion­e, come nel distico «tutta la natura pare/ stare nel pro- prio idioma». In effetti gli assetti metrici variano, per misura dei versi, uso delle rime, strutture strofiche. Ma il tasso di petrosità rimane alto, a segnalare forse sul piano espressivo il dato dell’esclusione, della solitudine accorata, del guardare da fuori, del rifiutare la realtà.

Eppure, mentre lo scenario epocale si oscura o torna a oscurarsi (perché una fioritura per l’Italia e l’Europa c’è stata, ma pare sempre più negarsi in egoismi, slogan, paure), qualcosa nella nominazion­e del mondo così com’è si inalbera, si ribella. Una ribadita, enig- matica «figura del rinascente» fa la sua comparsa; ed è nella parola che spira, che aleggia. La parola della poesia, che non sa di sé se non il proprio darsi ancora, tra non credere e aprirsi, sembra figura dell’alba.

Si tratta di invocazion­i senza oggetto, forse inascoltat­e, ma comunque di «parole custodite/ per compiersi domani». Infatti, come l’autore spiega nella nota al poemetto su Caproni, l’incontro possibile è «su quella soglia tra il sì e il no, dove sta il non credente-non ateo, il non affidato al cielo né consegnato alla nuda terra. In quei territori si sposta la lingua poetica, fino al limite del conoscibil­e, davanti all’inconoscib­ile».

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