Corriere della Sera - La Lettura
Ispirazioni sghembe: le elezioni del ’94, il G8
Eugenio De Signoribus si muove tra le sue «Stazioni» nelle spirito delle «rime petrose»
Un libro di frantumi, brani, spigolature, eppure costituito in unità, in struttura, avvinto da un respiro: così si potrebbero descrivere le Stazioni del marchigiano Eugenio De Signoribus, da poco edite da Manni.
Sono per l’appunto scaglie, episodi, sgorghi occasionali, che però l’autore riscrive a distanza e monta in una intelaiatura: 14 elementi più un congedo nella prima parte o anta (ma alcuni poemetti sono microsequenze), altrettanti più un ulteriore congedo nella seconda. Le occasioni esterne sono per un poeta un modo per re- stare all’interno del proprio discorso, costeggiandone i bordi, i confini. Così è per De Signoribus, che usa gli spunti civili e politici che ispirano vari testi (dalle elezioni del 1994 al G8 di Genova ai drammi ambientali) per abitare con più insistenza e travaglio che mai la propria parola appuntita e sghemba, desolata.
Sono infatti stazioni dolorose: dallo stupore tradito dell’infanzia («I bambini umiliati/ sono soli davanti alla meraviglia dell’universo») all’inerme che soccombe, fino alla marea montante di un «progresso» che il poeta vive — tra Giaco- mo Leopardi e Pier Paolo Pasolini — come falso, illusorio. Ma il cuore del libro è nel sentimento della parola: non per caso varie occasioni sono fornite proprio dagli omaggi ai maestri (Paolo Volponi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici). C’è perciò un forte senso artigianale del fare poetico: l’illuminazione deriva dall’aderire alle sedimentazioni della lingua, alla matericità delle forme. E dal lasciare che all’improvviso, dal lavorio su un materiale che pare inerte, si liberi un fiotto di energia, una rivelazione, come nel distico «tutta la natura pare/ stare nel pro- prio idioma». In effetti gli assetti metrici variano, per misura dei versi, uso delle rime, strutture strofiche. Ma il tasso di petrosità rimane alto, a segnalare forse sul piano espressivo il dato dell’esclusione, della solitudine accorata, del guardare da fuori, del rifiutare la realtà.
Eppure, mentre lo scenario epocale si oscura o torna a oscurarsi (perché una fioritura per l’Italia e l’Europa c’è stata, ma pare sempre più negarsi in egoismi, slogan, paure), qualcosa nella nominazione del mondo così com’è si inalbera, si ribella. Una ribadita, enig- matica «figura del rinascente» fa la sua comparsa; ed è nella parola che spira, che aleggia. La parola della poesia, che non sa di sé se non il proprio darsi ancora, tra non credere e aprirsi, sembra figura dell’alba.
Si tratta di invocazioni senza oggetto, forse inascoltate, ma comunque di «parole custodite/ per compiersi domani». Infatti, come l’autore spiega nella nota al poemetto su Caproni, l’incontro possibile è «su quella soglia tra il sì e il no, dove sta il non credente-non ateo, il non affidato al cielo né consegnato alla nuda terra. In quei territori si sposta la lingua poetica, fino al limite del conoscibile, davanti all’inconoscibile».