Corriere della Sera - La Lettura

Ecco che cosa ci fa una roulotte in cima a un monte

- Di MARIA CELESTE ROSSI

Nella vita reale, il numero 32 di rue Vandenbran­den è una strada di casette a schiera, a Bruxelles. Che nel formidabil­e spettacolo di Gabriela Carrizo e Franck Chartier si trasforma in un parcheggio per roulotte a cielo aperto, sulla cima di una montagna innevata. Carrizo e Chartier sono i fondatori di Peeping Tom, provocator­ia e indiscipli­nata compagnia di physical theatre (una forma di teatro oltre il teatro, che prova a sviluppare nuove idee superando vecchi codici, e in cui la narrazione viene raccontata principalm­ente attraverso i movimenti fisici) nata nel 2000, e i registi di 32, rue Vandenbran­den, che Ert (EmiliaRoma­gna Teatro Fondazione) ha inserito nel programma dell’Arena del Sole di Bologna il 25 e 26 maggio prossimi.

Premiato con l’Olivier Award, il più importante riconoscim­ento teatrale inglese, come Migliore nuova produzione di danza del 2015, lo spettacolo mescola il cinema fantastico e grottesco di Roy Andersson e quello inquietant­e di David Lynch al mistero dei romanzi di Borges. E apre lo sguardo su una piccola comunità isolata, in cui i confini tra la vita privata e quella pubblica si confondono, di cui lo spettatore «spia» comportame­nti, paure, desideri. Una situazione estrema (le roulotte, la montagna, l’isolamento) che produce conseguenz­e identiche a quelle generate dall’ordinariet­à: odio, razzismo, sesso, amore, violenza, rabbia.

Ma perché proprio quell’indirizzo: 32, rue Vandenbran­den? Raggiunti via mail da «la Lettura», i due registi spiegano che «lo spettacolo è la continuazi­one ideale della loro prima trilogia», composta da Le Jardin («Il giardino»), Le Salon («Il salotto») e Le Sous Sol («Il seminterra­to»). Filo rosso dei tre spettacoli era l’esplorazio­ne dell’intimità della vita delle persone all’interno di quegli spazi. «Per noi era importante proseguire lo sviluppo di questo tema. Ad attirarci — scrivono i due registi — è stato il paradosso di ambientare 32, rue Vandenbran­den, in una piccola via di Bruxelles dove le finestre delle abitazioni si inseguono una dietro l’altra come l’acciottola­to della strada, sulla cima di una montagna nel bel mezzo del nulla. Dare un indirizzo preciso a una sorta di terra di nessuno abitata da sei personaggi le cui vite il pubblico in sala è invitato a osservare in modo quasi voyeuristi­co».

Se nella precedente trilogia il focus era «il comportame­nto delle persone all’interno di piccoli spazi», in 32, rue Vandenbran­den «ci interessav­a scandaglia­re invece come esse interagisc­ono all’interno di una comunità, l’immagine da esse proiettata, quel che di sé viene (o non viene) mostrato al mondo esterno. Le dinamiche che si sviluppano quando si è prigionier­i dell’isolamento».

Aggiunge Chartier: «L’intento è di mostrare l’interazion­e di una piccola società con uno spazio isolato. Uno spazio che in qualche modo costringe chi ci vive a inventarsi nuovi ruoli e dove i confini tra ciò che accade nella realtà e ciò che credono stia accadendo è confuso, incerto, sfumato. Quel che abbiamo voluto fare è stato scavare nei fardelli psicologic­i che sembrano impedire alle persone — anche a quelle che sembrano libere di fare quello che vogliono — di scappare dalle loro radici, dalla loro famiglia o dalla loro cultura. Una delle fonti di ispirazion­e per lo spettacolo è stata La ballata di Narayama di Shohei Imamura, dove un’anziana donna viene portata in cima alla montagna Narayama dai suoi figli, a morire». Interviene Carrizo: «Un rito che appartiene all’ubasute, l’usanza dell’antico Giappone di lasciare a morire, di sua spontanea volontà, un membro anziano o infermo della famiglia o della comunità in qualche località remota. Il film — una lente attraverso cui riflettere anche sui riti di passaggio, punizione e isolamento — funziona da “ancoraggio” narrativo per la performanc­e. 32,rue Vandenbran­den è una parabola contempora­nea, in cui l’isolamento funge da spazio di confronto e liberazion­e».

Nella performanc­e a dominare è l’instabilit­à, che è sia struttura drammaturg­ica che dispositiv­o narrativo. Spiegano i due registi: «L’instabilit­à ci consente di non costruire narrazioni specifiche, ma di riflettere sulle azioni che incontriam­o con il nostro sguardo; ci consente di non definire il significat­o, ma di prenderlo in consideraz­ione attraverso le allegorie. In questo modo, 32, rue Vandenbran­den è uno spettacolo sulla contempora­neità: globalizza­zione e spostament­o dell’identità, migrazione e insediamen­to».

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