Corriere della Sera - La Lettura
In fuga perché umani
«Rompere le regole» è il tema del festival di Pistoia. E uno dei modi più consueti per sottrarsi ai vincoli è appunto scappare Siamo esseri strabici: cerchiamo un radicamento ma anche piste nuove. Non solo attraverso viaggi, migrazioni e vagabondaggi Anche il riso, l’arte, la scrittura sono vie d’uscita provvidenziali
Siamo esseri strabici. Per un verso guardiamo alle appartenenze, al nostro «noi», coltivando quella che si definisce «identità»; ci sentiamo (parzialmente) chiusi, ma anche rassicurati nelle culture che ci forgiano e ci forniscono l’armamentario materiale e simbolico con cui affrontiamo il mondo. Con l’altro occhio tuttavia cerchiamo vie di fuga, percorrendo nella realtà o nell’immaginario piste alternative a quelle abituali. James Clifford sintetizzava l’umano strabismo accostando due termini inglesi, omofoni, ma con diversa origine e significato: roots e routes, «radici» e «strade». Siamo degli ossimori viventi, pretendiamo di avere radici come gli alberi, ma in realtà abbiamo i piedi e siamo attratti da sentieri inediti.
Viviamo tuttavia tempi difficili in cui, almeno nel discorso pubblico, le appartenenze, le radici e l’identità sono decisamente prevalenti e occultano l’altra faccia della medaglia. Chiudendo, realmente o simbolicamente, le vie di fuga. Le migrazioni, il movimento, i sogni di altri mondi possibili divengono così «eccezioni», problemi, insicurezze o infantili illusioni da arginare con politiche identitarie e sovraniste. Rompere le regole, ideare percorsi creativi e meticci genera sospetto. Appare più rassicurante chiudersi nella propria conchiglia.
Ci sono società ed epoche che, al contrario, hanno messo al centro dei loro interessi la questione del movimento e delle vie di fuga. Nel 2011 tornai sull’isola polinesiana di Futuna in cui avevo compiuto ricerche molti anni prima. Alcuni capi villaggio mi avevano invitato alle celebrazioni per il cinquantenario del Territorio d’oltremare francese di Wallis e Futuna (istituito nel 1961). I capi organizzarono un convegno nell’edificio della chefferie, a cui invitarono l’antropologo, la linguista, l’archeologo, la storica che avevano studiato di recente la loro società. L’evento fu incastonato in una serie di celebrazioni, tra cui una mostra di fotografie e documenti storici, che vennero chiamate tavaka. In polinesiano tavaka significa «viaggio», «viaggiare», ma con un’accezione particolare di «desiderio di viaggiare», «brama», «inquietudine», «bisogno» di andare oltre i ristretti orizzonti che racchiudono un’isola. I missionari cattolici che a metà Ottocento si stabilirono in Polinesia, descrissero spesso nei diari questo desiderio sfrenato del viag- gio (uno di loro parlò di «malattia pestilenziale») che spingeva molti giovani a imbarcarsi su piccole canoe e a partire per avventure che spesso equivalevano a suicidi. Pur di non rimanere prigionieri della loro isola.
Centocinquant’anni dopo, quando la globalizzazione ha aperto ai nativi nuove strade migratorie (più del doppio delle persone che oggi abitano l’isola vivono altrove, soprattutto in Francia e Nuova Caledonia), tavaka è divenuto il motto di uno stile di vita basato sulle strade più che sulle radici, con movimenti di andata e a volte di ritorno. Una società che da più di 3.000 anni vive in una piccola isola, si autodefinisce attraverso il desiderio del viaggio più che per il radicamento. Si fondano nuove società percorrendo vie di fuga, non rimanendo fermi.
Difficile non pensare al walkabout (il «vagabondare») degli aborigeni australiani, la passione per il movimento che Bruce Chatwin ha poeticamente descritto nelle sue Vie dei canti. «Gli uomini del tempo antico percorsero tutto il mondo cantando: cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto», scriveva Chatwin. Ai discendenti di quei poeti (nel senso lettera-