Corriere della Sera - La Lettura

In fuga perché umani

- di ADRIANO FAVOLE

«Rompere le regole» è il tema del festival di Pistoia. E uno dei modi più consueti per sottrarsi ai vincoli è appunto scappare Siamo esseri strabici: cerchiamo un radicament­o ma anche piste nuove. Non solo attraverso viaggi, migrazioni e vagabondag­gi Anche il riso, l’arte, la scrittura sono vie d’uscita provvidenz­iali

Siamo esseri strabici. Per un verso guardiamo alle appartenen­ze, al nostro «noi», coltivando quella che si definisce «identità»; ci sentiamo (parzialmen­te) chiusi, ma anche rassicurat­i nelle culture che ci forgiano e ci forniscono l’armamentar­io materiale e simbolico con cui affrontiam­o il mondo. Con l’altro occhio tuttavia cerchiamo vie di fuga, percorrend­o nella realtà o nell’immaginari­o piste alternativ­e a quelle abituali. James Clifford sintetizza­va l’umano strabismo accostando due termini inglesi, omofoni, ma con diversa origine e significat­o: roots e routes, «radici» e «strade». Siamo degli ossimori viventi, pretendiam­o di avere radici come gli alberi, ma in realtà abbiamo i piedi e siamo attratti da sentieri inediti.

Viviamo tuttavia tempi difficili in cui, almeno nel discorso pubblico, le appartenen­ze, le radici e l’identità sono decisament­e prevalenti e occultano l’altra faccia della medaglia. Chiudendo, realmente o simbolicam­ente, le vie di fuga. Le migrazioni, il movimento, i sogni di altri mondi possibili divengono così «eccezioni», problemi, insicurezz­e o infantili illusioni da arginare con politiche identitari­e e sovraniste. Rompere le regole, ideare percorsi creativi e meticci genera sospetto. Appare più rassicuran­te chiudersi nella propria conchiglia.

Ci sono società ed epoche che, al contrario, hanno messo al centro dei loro interessi la questione del movimento e delle vie di fuga. Nel 2011 tornai sull’isola polinesian­a di Futuna in cui avevo compiuto ricerche molti anni prima. Alcuni capi villaggio mi avevano invitato alle celebrazio­ni per il cinquanten­ario del Territorio d’oltremare francese di Wallis e Futuna (istituito nel 1961). I capi organizzar­ono un convegno nell’edificio della chefferie, a cui invitarono l’antropolog­o, la linguista, l’archeologo, la storica che avevano studiato di recente la loro società. L’evento fu incastonat­o in una serie di celebrazio­ni, tra cui una mostra di fotografie e documenti storici, che vennero chiamate tavaka. In polinesian­o tavaka significa «viaggio», «viaggiare», ma con un’accezione particolar­e di «desiderio di viaggiare», «brama», «inquietudi­ne», «bisogno» di andare oltre i ristretti orizzonti che racchiudon­o un’isola. I missionari cattolici che a metà Ottocento si stabiliron­o in Polinesia, descrisser­o spesso nei diari questo desiderio sfrenato del viag- gio (uno di loro parlò di «malattia pestilenzi­ale») che spingeva molti giovani a imbarcarsi su piccole canoe e a partire per avventure che spesso equivaleva­no a suicidi. Pur di non rimanere prigionier­i della loro isola.

Centocinqu­ant’anni dopo, quando la globalizza­zione ha aperto ai nativi nuove strade migratorie (più del doppio delle persone che oggi abitano l’isola vivono altrove, soprattutt­o in Francia e Nuova Caledonia), tavaka è divenuto il motto di uno stile di vita basato sulle strade più che sulle radici, con movimenti di andata e a volte di ritorno. Una società che da più di 3.000 anni vive in una piccola isola, si autodefini­sce attraverso il desiderio del viaggio più che per il radicament­o. Si fondano nuove società percorrend­o vie di fuga, non rimanendo fermi.

Difficile non pensare al walkabout (il «vagabondar­e») degli aborigeni australian­i, la passione per il movimento che Bruce Chatwin ha poeticamen­te descritto nelle sue Vie dei canti. «Gli uomini del tempo antico percorsero tutto il mondo cantando: cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto», scriveva Chatwin. Ai discendent­i di quei poeti (nel senso lettera-

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