Corriere della Sera - La Lettura
Ho abdicato alla vita per raccontare la vita
Romain Gary si è seduto (vestito) sul bidet di un hotel di Parigi; Philip Roth si è ritirato in un monolocale di Manhattan; Ágota Kristóf si è rinchiusa in un cucinotto riscaldato male da una stufa a legna Così ho appreso che cos’è il «dazio» da pagare a
Atrentaquattro anni Romain Gary è seduto sul bidet di un hotel parigino in rue des Saints-Pères: è vestito, sulle ginocchia ha carta e penna e sta scrivendo il suo quarto romanzo, Le Grand Vestiaire. Tira a campare a fatica, sul groppone vanta una carriera da aviatore, incarichi da diplomatico, una madre spropositata, un editore che non gli versa anticipi perché non lo riconosce «ancora come petrolio». Per la prima volta non riesce a tenere insieme la scrittura e i pezzi delle sue vite. L’occupazione al ministero degli Esteri erode la scrittura, anche il pensiero per sua madre erode la scrittura, come le donne che frequenta, e gli impicci quotidiani, e il brulicare che lo assilla. Per questo è rintanato in un bagno di un hotel da pochi franchi. Non dipende solo dal fatto che è al verde: qui, nella toilette due metri per due, Gary ha percepito di poter «lasciar andare tutto tranne la scrittura, e con dolore». Lo dirà anni dopo, con un paio di premi Goncourt in bacheca, quattro pseudonimi e cinquanta opere pubblicate, ricordando di aver capito come difendere la sua arte a partire da quel bidet in rue des SaintsPères.
Lasciar andare tutto, e con dolore: Philip Roth quasi alla stessa età di Gary, si ritira in un monolocale a Manhattan, dopo aver scovato il coraggio di staccarsi dalla fidanzata che lo assillava e che lui amava. Lei passa a cercarlo, lui si fa trovare le prime volte, poi si forza a non aprirle. È una ragazza che gli dà l’impressione di «mangiargli» nel cuore i capitoli del libro che sta nascendo, si tratta di Lamento di Portnoy. In lei Roth riversa le pressioni della giovinezza a Newark, e i fastidi religiosi di cui sta per liberarsi. Nel monolocale il giovane Philip decide: dare in pegno un futuro sentimentale, anche il rapporto con la famiglia d’origine, la carriera universitaria, tutto, per qualcosa che sta scrivendo. Mezzo secolo dopo si ricorderà di alcuni dettagli: la goffaggine nel motivare l’isolamento verso chi lo cercava, la rinuncia a fare lezioni di letteratura, le scuse per rimandare le visite alla famiglia nella vicina Newark. «E non sapere nemmeno se sarebbe stata un’opera che ne sarebbe valsa la pena».
Diventare solo scrittura, e il suo rischio. Doveri di sostentamento a parte. Per Gary, per Roth, per chi fa sul serio, accade qualcosa di più del classico: ho bisogno di silenzio per creare. Ágota Kristóf lo definì il dazio. Lei, che per ottenere la condizione necessaria lasciò andare la propria lingua, l’ungherese, per abbattere gli spettri vissuti in patria. Scrisse Trilogia della citta di K. in francese, in nome della svizzera che le diede rifugio, conoscendo mille e duecento vocaboli in tutto e adattandosi a una prosa assassina. Compose la prima parte dell’opera nel cucinotto riscaldato male da una stufa a legna. «Più avevo freddo, più perdevo di me, più il libro veniva», ribadì anni dopo. La perdita ancora una volta. Ma anche l’influsso del lavoro per campare: la Kristóf dichiarò che Trilogia fu anche il frutto di piccoli mestieri per avere di cosa mangiare, ma niente che le inficiasse la testa. Scrivere, lavorare per nutrirsi, scrivere. Abdicare agli affetti o quasi, in nome di un’organizzazione che spogli l’autore. Il dazio: cedere al restringimento della propria orbita affinché passi ai personaggi. Come se rinunciare a ciò che si è fuori dalla scrittura, finisca in ciò che si è nella scrittura.
Immaginare Gary, accomodato sul bidet. E Roth, rintanato nel monolocale a Manhattan. Immaginare la Kristóf, nel cucinotto. E per ogni parola dissotterrata — come disse Hemingway — immaginare un’abdicazione. Quanto è costata quest’opera. Quanto questo paragrafo. E questa riga. Quanto costa lasciar andare il fuori. A rivelarlo, per Roland Barthes è spesso un episodio foudre, fulminante, che certifica d’improvviso il costo della scrittura al suo autore. Bisogna avere la pena, o la sensibilità, di riconoscerlo. In lui fu un pranzo con la madre, divenuto sbrigativo per sua scelta, affinché potesse rituffarsi in un’opera in corso. Barthes capisce qui l’impossibilità di opporsi al dazio, e la lacerazione consapevole, proprio lui che nella madre erige il tutto.
Qual è il mio episodio barthesiano? Ne ho mai avuti? Ho mai davvero compreso, nel mio piccolo, cosa significasse lasciar perdere con dolore, durante la scrittura? Sono interrogativi nati dopo essermi accorto di un mio atteggiamento che tengo nella stesura dei libri: mi percepisco come un debitore, che sfugge i creditori. Negarsi il tempo libero con mia moglie, le uscite con gli amici, una telefonata in più a mia madre, a mio padre, un fine settimana con mia sorella, un articolo per il «Corriere della Sera», una conferenza, una presentazione, e così via. Tutti debiti accumunati, o meglio: tutte voglie a cui volto le spalle. Fin qui sarebbe faticosa amministrazione. Dopo cinque libri si impara a essere comunque acrobati, integrando metodi di scrittura funzionali al resto dell’esistenza. Nel mio caso scrivo di mattina, per quattro ore, ritagliandomi un’ora la sera, per sistemare la prosa mattutina. È una tabella di marcia che mi permette di fare altri mestieri, e di «non imbarcare troppa acqua sulla mia scialuppa», come direbbe Melville. Ma stavolta, foudre, ho compreso che il dazio non è la faticosa amministrazione: è altro, e si è nascosto con accortezza.
Il dazio ha le mentite spoglie di Teresa, la bambina di un mio caro amico. È nata il 3 maggio di questo anno, il 1º maggio ero solo a Milano e dopo aver scritto sono andato con il suo futuro padre, Alberto, a mangiare in un ristorante pugliese in via Venini, zona nord di Milano. Ci siamo trovati io e lui, sua moglie era dai genitori, mia moglie a Torino per una riunione. Abbiamo pensato fosse un momento buono per vederci, Milano era deserta per la festa dei lavoratori ed erano settimane che accumulavo debiti con lui. Ci siamo seduti al ristorante, guardando il suo cellulare spesso, dal 30 aprile la luna
era cambiata e ogni secondo era giusto per Teresa. Dopo il pranzo abbiamo fatto una passeggiata piccola, il giusto per iniziare la digestione, siamo risaliti in viale Monza e ci siamo fermati all’angolo di una traversa, via Matteo Boiardo, per salutarci. Abbiamo chiacchierato una decina di minuti, sapevamo che era l’ultima volta che lo vedevo prima di essere padre. A un certo punto siamo rimasti zitti, non c’era anima viva, l’ho adocchiato nella sua camicia grigia appena larga, eravamo provati dal pranzo e da un’improvvisa timidezza, è stato allora che ho capito che lui aveva concepito un figlio, e lo stava per mettere al mondo. È stato allora che mi sono detto: mentre scrivi, intanto che hai scritto, caro Marco, lui è genitore.
Lasciare andare questo. Sentivo che era qualcosa che avrei potuto fare anche io, che avrei voluto fare anche io, ma che non l’avevo cercato per dare il giusto spazio alla scrittura. E che anche mia moglie, in qualche modo, aveva rispettato il dazio, associandolo alla propria carriera. Non era stata una scelta inconscia, era stata una presa di posizione bella e buona, circondata da sentenze congiunte come «Prima il tuo romanzo finito e io i miei impegni», «Prima l’uscita del libro e io le mie cose», «Aspettiamo di vedere la chiusura del libro». Frasi per prendere tempo rispetto a un passo cruciale? Una sorta di tela di Penelope fatta e disfatta? Può darsi. Ma è in quel momento, all’incrocio di viale Monza e via Matteo Boiardo, il 1º di maggio del 2018, intorno a pomeriggio, che il mio momento barthesiano si è compiuto e io ho percepito non solo che avevo lasciato andare, ma che lo avevo fatto con un dolore pieno, compiuto, maledettamente postumo.
Io e Alberto siamo coetanei, pubblichiamo romanzi entrambi, per una coincidenza abbiamo fatto tappe sentimentali negli stessi momenti: incontrarsi, fidanzarsi, convivere, sposarsi. Ma è stato nell’anno matrimoniale, il 2016, che qualcosa è cambiato.
Era giugno e io ho iniziato a farmi punzecchiare dall’idea del nuovo romanzo, l’ho lasciata ristagnare per circa tre mesi, poi ho cominciato a fare le prime ricerche che sono diventate approfondite e infine corpose. Nel frattempo la mia quotidianità aveva già registrato alterazioni: rimandi verso la vita sociale, meno tempo dedicato ad altre professioni, premeditazioni per disonorare appuntamenti, ricerche di un luogo per concentrarmi ogni mattina. Il vero inizio della scrittura, tolto lo studio e le ricerche e i primi abbozzi, è annotato sul mio diario il 1º febbraio 2017: «Parto e non so dove finisco, come sempre». Da questo momento divento un debitore seriale.
Dai diari, in un anno sono fuggito a circa centoventi ipotesi di compartecipazione alla vita, tra svago e lavoro e occasioni di «espandere l’esistenza». È impossibile definire quanto una tentata gravidanza sia stata davvero esclusa per gli stessi motivi, ma ho un altro genere di prove da mettere agli atti. Per questo giornale non scrivevo da ottobre 2017 (un articolo dedicato a una raccolta di racconti di Chris Offut): in circa sette mesi mi sono sabotato sedici auto-tentativi spontanei di recensire romanzi o saggi. È un fatto strano per una mia regolarità a cui tengo molto. Ho avuto alcuni scambi con il caporedattore della cultura del «Corriere delle Sera», per giustificarmi della mia sparizione. Lo stesso avveniva in ufficio: le ore di presenza si sono ridotte a una media di sei e mezza al giorno invece delle sette e mezza (le annotavo su un calendario). Sono risalito anche ai biglietti del treno acquistati con destinazione Rimini, per trovare i miei genitori e mia sorella: a oggi, in quindici mesi, sono tornato quattro volte. L’anno scorso è accaduto quattordici volte, l’anno prima tredici volte. Non sto con mia moglie al risveglio dal giorno dell’incipit del romanzo (mi alzo molto presto per scrivere), scateno nervosismi e irrequietezze tra le mura di casa con una cadenza superiore alla media. Anche i guadagni dovuti a collaborazioni esterne sono ridotti di quasi il 70%.
È il massimo di certificazione quantitativa che posso mettere in conto finora a questo libro, una somma del tutto approssimativa, a cui va aggiunta la variabile-Faulkner: un dazio profetico che ciascun romanzo, secondo il premio Nobel, richiede allo scrittore non soltanto verso il presente, ma in direzione futura. Come se ciò che si scrive ora, lascerà andare qualcosa poi. Faulkner ne ebbe il sospetto fin dall’inizio della carriera, trattando con circospezione le sostanze che sollecitava nella scrittura: quali personaggi emergessero durante la stesura, il divino che sfidavano, il fato che andavano a smuovere, la carnalità che scardinavano. Era convinto che le parole generassero un furto alla vita, e che la vita potesse vendicarsene in un secondo momento. Nonostante questo anatema, e forse per questo anatema, limitarsi sarebbe stato il peccato. Lasciare andare con dolore, per Faulkner: le conseguenze della letteratura sull’avvenire di chi l’ha scritta.
I suoi sentori si tradussero quando concepì Mentre morivo, aveva circa l’età del Gary in albergo e l’età di Roth nel monolocale, lo compose tra mezzanotte e le quattro di mattina, lavorando come fochista. Era un libro dell’addio a una madre da parte dei figli. Faulkner ebbe il timore che l’amore riversato sul personaggio Cash e sui quattro fratelli, orfani e disorientati, sarebbe tornato in un debito prossimo. Secondo lui trovò fondatezza circa un anno più tardi, il giorno in cui la figlia Alabama morì dopo nove giorni che era venuta al mondo. Come se la bimba avesse assorbito il contrappasso di un romanzo sul cuore dei figli. Il dazio futuro.
Una bambina chiamata Alabama. E l’isolamento di Romain. Il rifugio del giovane Philip. Lo sradicamento di Agota. Teresa. Il concedere e il cedere alla letteratura, quanto una parola scritta sottrae al mondo, quanto?