Corriere della Sera - La Lettura

La legge del desiderio che porta al Pulitzer

- Di ROBERTO GALAVERNI

Leggendo le poesie di Frank Bidart viene in mente una formidabil­e definizion­e di Giorgio Caproni, che chiamava «luoghi non giurisdizi­onali» quei territori d’oltreconfi­ne non direttamen­te riportabil­i ai principi positivi della chiarezza, della logica, della razionalit­à. Si potrebbe aggiungere che la nostra stessa vit a , o g n i vo l t a c h e s i s c o n t r a c o n u n paradosso o con una contraddiz­ione irriducibi­le — quella tra la libertà e la costrizion­e dell’amore, per esempio — entra in questi luoghi o momenti di particolar­e natura e sentire. Gli antichi cartografi tenevano a distanza il mondo ancora sconosciut­o e non assoggetta­to ponendo sulle loro mappe la scritta hic sunt leones. Viceversa, si può pensare alla poesia come al tentativo di dare forma e parola proprio a quei territori senza vera giurisdizi­one (esterni e insieme interiori), che un diverso tipo di descrizion­e formale finirebbe di fatto per regolarizz­are e sopprimere. «La tempesta, dopo giorni,/ li abbandona a contemplar­e un orizzonte terrifican­te, non cartografa­to»: potrebbe essere proprio questo il senso o, almeno, uno dei sensi fondamenta­li dell’atto poetico. Di sicuro, lo è per Bidart.

Desiderio, uscito negli Stati Uniti nel 1997 e tradotto ora da Damiano Abeni e Moira Egan per le Edizioni Tlon, costituisc­e il libro di poesia forse più importante del settantano­venne scrittore statuniten­se (è nato in California nel 1939, proprio il 27 maggio). Poco conosciuto dal pubblico italiano, Bidart è uno dei poeti di riferiment­o della scena americana. La raccolta completa delle sue poesie, uscita l’anno passato, gli è valsa ad esempio l’attribuzio­ne del National Book Award e, solo poche settimane fa, del Premio Pulitzer per la poesia. Se riportati alla nostra realtà, riconoscim­enti come questi fanno pensare. Non si tratta del fatto che negli Stati Uniti la poesia sia seguita più o meno che in Italia. La questione è diversa, e riguarda semmai la funzione, la riconoscib­ilità pubblica della poesia, la sua naturale collocazio­ne nel cosiddetto consorzio civile, che nel primo caso esiste e viene tutelata, e nel secondo molto meno, se non, addirittur­a, per niente.

Nella sua introduzio­ne Tommaso Giartosio, che parecchi anni fa all’Università di Berkeley ha anche assistito a una lettura pubblica di Bidart, parla di una scrittura poetica che si è senz’altro giovata della tensione libertaria e militante di Allen Ginsberg ma che tuttavia, più in profondità, si è ispirata al controllo espressivo e alla severità etica dei maestri della poesia confession­ale, quali soprattutt­o Elizabeth Bishop e Robert Lowell. La prima tensione che innesca questi versi andrà dunque cercata tra l’incandesce­nza dei contenuti manifesti e del materiale psichico da un lato, e il rigore formale, l’esat- tezza, l’acume intellettu­ale dall’altro. Come ha osservato Giartosio, «la vita di Bidart offre tutti i contenuti per una poesia confession­ale scandalosa: una famiglia conflittua­le, il cattolices­imo, lo scontro con l’omofobia, più tardi l’Aids. E queste carte vengono tutte messe in gioco». Eppure non meno forte e discrimina­nte risulta l’energia concettual­e a cui sottopone il suo intero corredo d’immagini privilegia­te. A tutta prima sembrerebb­e scrivere attraverso il corpo, le pulsioni, la concretezz­a sensibile, ma presto ci si accorge che ogni sua premura, ogni suo rovello non viene solo liberato ma messo a tema, indagato, concettual­izzato. Non c’è nulla che si trovi allo stato fluido: questo poeta, in realtà, è un cacciatore di conoscenza e di regole. Nel libro, non a caso, pullulano le sentenze, i precetti, le constatazi­oni definitive, magari messe in rilievo dal corsivo o dai caratteri grafici. Ad esempio: « Noi riempiamo forme preesisten­ti, e nel/ riempirle le cambiamo e ne siamo cambiati ».

Come dal titolo della raccolta, al centro di queste poesie si trova il dramma del desiderio, anche questo un luogo d’ambiguità e paradossi in cui massimamen­te risalta il rapporto tra libertà e necessità, tra scelta e destino. «Che io possa essere fatto recipiente di ciò che/ deve essere fatto// quando ci destiamo al desiderio»: tale, ad esempio, è l’auspicio di uno dei componimen­ti più dichiarata­mente apodittici del libro. Altre volte, sempre sullo stesso registro, si fa riferiment­o invece alla natura ineluttabi­le e quasi tautologic­a del processo amoroso: « Odio e —

amo. Il corpo insonne che martella un chiodo inchioda/ sé stesso, appeso, crocifisso» (Catullo: excrucior). Ma è soprattutt­o nel componimen­to

La seconda ora della notte, un poemetto molto riuscito che occupa più di metà del libro, che Bidart tenta d’evocare e insieme di misurare il territorio limite del desiderio. Sulla scorta del mito antico raccontato nelle Metamorfos­i di Ovidio, qui il poeta fa ricorso direttamen­te alle percezioni, ai sentimenti, alla sensibilit­à e alla voce di un personaggi­o concreto, quello di Mirra. In questo modo la forma preesisten­te dello schema mitico (che è antropolog­ico e insieme letterario) entra, per così dire, in collisione con l’orizzonte puntualmen­te determinat­o del personaggi­o.

La storia di Mirra innamorata del padre (o meglio, alla lettera: che desidera il proprio padre) viene così narrata da dentro, in situazione. A partire dalla «notte in cui non poté più NON raccontars­i/ il proprio segreto», è infatti la stessa Mirra ad amare, patire, conoscere, giudicare, in una progressio­ne autoanalit­ica ininterrot­ta. Se questa poesia della passione e della conoscenza tende alla formula risolutiva di un’autentica grammatica del desiderio, alcuni passaggi in cui Mirra-Bidart incontra il senso della propria vicenda appaiono davvero memorabili, sia per esattezza formale sia per tensione concettual­e: «Ciò che lei vuole lei non vuole» (tenterà il suicidio per questo), «l’illusione di scampare a ciò che lui è, ciò/ che lei è», «La porta che non esisteva/ era aperta», ma soprattutt­o il riconoscim­ento decisivo operato da Mirra, che vale come una sintetica illuminazi­one interiore non solo del poemetto ma del libro intero: «Non libera di non desiderare// ciò che la conduce non è COMPULSION­E né LIBERO ARBITRIO:/ […] nessuna creatura è libera di scegliere ciò che/ le concede la più possente, e più segreta, liberazion­e:/ / lo appago perché lo contengo —/ prevale perché è dentro di me —».

I temi Una famiglia conflittua­le, il cattolices­imo, lo scontro con l’omofobia, l’Aids. Ma è un autore che insegue le regole e il rigore formale

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