Corriere della Sera - La Lettura
La legge del desiderio che porta al Pulitzer
Leggendo le poesie di Frank Bidart viene in mente una formidabile definizione di Giorgio Caproni, che chiamava «luoghi non giurisdizionali» quei territori d’oltreconfine non direttamente riportabili ai principi positivi della chiarezza, della logica, della razionalità. Si potrebbe aggiungere che la nostra stessa vit a , o g n i vo l t a c h e s i s c o n t r a c o n u n paradosso o con una contraddizione irriducibile — quella tra la libertà e la costrizione dell’amore, per esempio — entra in questi luoghi o momenti di particolare natura e sentire. Gli antichi cartografi tenevano a distanza il mondo ancora sconosciuto e non assoggettato ponendo sulle loro mappe la scritta hic sunt leones. Viceversa, si può pensare alla poesia come al tentativo di dare forma e parola proprio a quei territori senza vera giurisdizione (esterni e insieme interiori), che un diverso tipo di descrizione formale finirebbe di fatto per regolarizzare e sopprimere. «La tempesta, dopo giorni,/ li abbandona a contemplare un orizzonte terrificante, non cartografato»: potrebbe essere proprio questo il senso o, almeno, uno dei sensi fondamentali dell’atto poetico. Di sicuro, lo è per Bidart.
Desiderio, uscito negli Stati Uniti nel 1997 e tradotto ora da Damiano Abeni e Moira Egan per le Edizioni Tlon, costituisce il libro di poesia forse più importante del settantanovenne scrittore statunitense (è nato in California nel 1939, proprio il 27 maggio). Poco conosciuto dal pubblico italiano, Bidart è uno dei poeti di riferimento della scena americana. La raccolta completa delle sue poesie, uscita l’anno passato, gli è valsa ad esempio l’attribuzione del National Book Award e, solo poche settimane fa, del Premio Pulitzer per la poesia. Se riportati alla nostra realtà, riconoscimenti come questi fanno pensare. Non si tratta del fatto che negli Stati Uniti la poesia sia seguita più o meno che in Italia. La questione è diversa, e riguarda semmai la funzione, la riconoscibilità pubblica della poesia, la sua naturale collocazione nel cosiddetto consorzio civile, che nel primo caso esiste e viene tutelata, e nel secondo molto meno, se non, addirittura, per niente.
Nella sua introduzione Tommaso Giartosio, che parecchi anni fa all’Università di Berkeley ha anche assistito a una lettura pubblica di Bidart, parla di una scrittura poetica che si è senz’altro giovata della tensione libertaria e militante di Allen Ginsberg ma che tuttavia, più in profondità, si è ispirata al controllo espressivo e alla severità etica dei maestri della poesia confessionale, quali soprattutto Elizabeth Bishop e Robert Lowell. La prima tensione che innesca questi versi andrà dunque cercata tra l’incandescenza dei contenuti manifesti e del materiale psichico da un lato, e il rigore formale, l’esat- tezza, l’acume intellettuale dall’altro. Come ha osservato Giartosio, «la vita di Bidart offre tutti i contenuti per una poesia confessionale scandalosa: una famiglia conflittuale, il cattolicesimo, lo scontro con l’omofobia, più tardi l’Aids. E queste carte vengono tutte messe in gioco». Eppure non meno forte e discriminante risulta l’energia concettuale a cui sottopone il suo intero corredo d’immagini privilegiate. A tutta prima sembrerebbe scrivere attraverso il corpo, le pulsioni, la concretezza sensibile, ma presto ci si accorge che ogni sua premura, ogni suo rovello non viene solo liberato ma messo a tema, indagato, concettualizzato. Non c’è nulla che si trovi allo stato fluido: questo poeta, in realtà, è un cacciatore di conoscenza e di regole. Nel libro, non a caso, pullulano le sentenze, i precetti, le constatazioni definitive, magari messe in rilievo dal corsivo o dai caratteri grafici. Ad esempio: « Noi riempiamo forme preesistenti, e nel/ riempirle le cambiamo e ne siamo cambiati ».
Come dal titolo della raccolta, al centro di queste poesie si trova il dramma del desiderio, anche questo un luogo d’ambiguità e paradossi in cui massimamente risalta il rapporto tra libertà e necessità, tra scelta e destino. «Che io possa essere fatto recipiente di ciò che/ deve essere fatto// quando ci destiamo al desiderio»: tale, ad esempio, è l’auspicio di uno dei componimenti più dichiaratamente apodittici del libro. Altre volte, sempre sullo stesso registro, si fa riferimento invece alla natura ineluttabile e quasi tautologica del processo amoroso: « Odio e —
amo. Il corpo insonne che martella un chiodo inchioda/ sé stesso, appeso, crocifisso» (Catullo: excrucior). Ma è soprattutto nel componimento
La seconda ora della notte, un poemetto molto riuscito che occupa più di metà del libro, che Bidart tenta d’evocare e insieme di misurare il territorio limite del desiderio. Sulla scorta del mito antico raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio, qui il poeta fa ricorso direttamente alle percezioni, ai sentimenti, alla sensibilità e alla voce di un personaggio concreto, quello di Mirra. In questo modo la forma preesistente dello schema mitico (che è antropologico e insieme letterario) entra, per così dire, in collisione con l’orizzonte puntualmente determinato del personaggio.
La storia di Mirra innamorata del padre (o meglio, alla lettera: che desidera il proprio padre) viene così narrata da dentro, in situazione. A partire dalla «notte in cui non poté più NON raccontarsi/ il proprio segreto», è infatti la stessa Mirra ad amare, patire, conoscere, giudicare, in una progressione autoanalitica ininterrotta. Se questa poesia della passione e della conoscenza tende alla formula risolutiva di un’autentica grammatica del desiderio, alcuni passaggi in cui Mirra-Bidart incontra il senso della propria vicenda appaiono davvero memorabili, sia per esattezza formale sia per tensione concettuale: «Ciò che lei vuole lei non vuole» (tenterà il suicidio per questo), «l’illusione di scampare a ciò che lui è, ciò/ che lei è», «La porta che non esisteva/ era aperta», ma soprattutto il riconoscimento decisivo operato da Mirra, che vale come una sintetica illuminazione interiore non solo del poemetto ma del libro intero: «Non libera di non desiderare// ciò che la conduce non è COMPULSIONE né LIBERO ARBITRIO:/ […] nessuna creatura è libera di scegliere ciò che/ le concede la più possente, e più segreta, liberazione:/ / lo appago perché lo contengo —/ prevale perché è dentro di me —».
I temi Una famiglia conflittuale, il cattolicesimo, lo scontro con l’omofobia, l’Aids. Ma è un autore che insegue le regole e il rigore formale