Corriere della Sera - La Lettura
Un romantico a Milano Bianciardi, amico fragile
Un volume raccoglie gli scritti dell’autore grossetano — garibaldino frustrato, vendicatore mascherato, cattivo profeta, investigatore delle patologie di pazienti dichiarati sani. Un altro toscano, Francesco Bianconi, leader del gruppo rock dei Baustelle,
Tutto, o quasi tutto, comincia con una fuga. Ogni Bildungsroman nasce da un luogo, geografico o dell’anima, da cui si vuole scappare: in questo caso c’è una città piccola, capitale illegittima di una terra amara («L’uccello che ci va perde la penna/ io c’ho perduto una persona cara»): terra di mare che c’è-ma-non-si-vede, di marrucheti e pantani, palude bonificata col sangue e le colmate, di anopheles, malaria, denutrite gioventù curate col chinino. In questa Grosseto Kansas City capoluogo del fango, su fondali di mura medicee, palazzi Aldobrandeschi e pinete lontane, con l’afa e la resina delle pigne che profuma e appiccica le mani, scorrazza il Luciano Bianciardi fra avventure con la strombola, capriole, sassate fra bande. Figlio di insegnante, questo principino piccolo-borghese, è rachitico e portato per le lettere.
«Diaccino», come egli stesso si nomina nel racconto Adorno, cresce, studia, corre, si allena a diventare uomo. Si iscrive all’università, scrive lettere, diari e poesie, si nutre di liberalsocialismo. Poi come tanti finisce soldato, e al termine della guerra si ritrova professore di liceo; spinto da voglie di giustizia sociale si inventa il «Bibliobus», un pulmino che distribuisce libri ai contadini. Collabora a vari giornali e con Carlo Cassola scrive un reportage sui minatori. Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisù uccide quarantatré lavoratori della miniera di lignite di Ribolla. E lui se ne va, mi immagino con poche cose appresso ma con un carico di ideali grosso così. Con la fede da evangelizzatore degli idealisti che vengono da fuori e la forza vitale dei fiori di campo, parte per Milano. Come se sapesse che quella è l’unica via per la modernità, quello il posto giusto per raccontare il futuro, quella la sola città italiana adatta alla realizzazione dei suoi sogni. Forse avrà pensato che «scrittore», in quegli anni a cavallo fra ricostruzione e boom, lo si potesse diventare soltanto lì.
O più semplicemente Bianciardi va a Milano perché Feltrinelli lo ha chiamato a partecipare alla fondazione di una nuova casa editrice.
Ma comincia male e ci uscirà presto, dalla Feltrinelli: in un passo del suo romanzo più autobiografico, il protagonista viene licenziato dall’editore reo di camminare strusciando i piedi in una redazione di passi veloci e tacchi sonoramente ribattuti sull’impiantito.
Insomma, la disillusione di Bianciardi, l’anarchico socialisteggiante appassionato degli eroi del Risorgimento, comincia non appena mette piede (lento) nel mondo organizzato (svelto) del lavoro culturale. Lo capisce subito che il sapere si è trasformato in rotocalco e che gli ex analfabeti sono già massa omologata.
Scrive bene Matteo Marchesini nella prefazione a Il cattivo profeta, il libro edito da il Saggiatore che dello scrittore grossetano raccoglie tutti i romanzi, i racconti, i saggi e le lettere: «Quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi fra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia». Outsider fragile dentro un ingranaggio apparentemente perfetto del quale vede tutti i difetti, Bianciardi diventa un ossimoro, un uomo (e un artista) di contraddizioni, una comunione impossibile di opposti.
A rileggerli, sia i primi romanzi sia ad esempio l’ucronico e postumo Aprire il fuoco, mi sembra di sentire come l’uomo fuggito da Grosseto per raccontare la Storia con la macchina per scrivere possedesse tutte le caratteristiche di chi abbia subito una mutazione. Confesso che da ragazzo rubai una copia de La vita agra a casa di una mia amica. Mi piacque tanto, ma dimenticai in fretta. Ora mi arrivano altre sensazioni; leggo Bianciardi e ne percepisco lo sdoppiamento: in un corpo mutato che agisce, opera e vive tendendo all’autodistruzione (come ogni completo esercizio della vita forse sempre comporta), e in un corpo altro (mi viene da immaginarlo leggero, non so perché), uno straccio fantasmatico che continua esangue ad aleggiare sopra al primo. Lo spettro dell’idealismo, del credo politico, della tensione morale, continua a essere ma a essere co-
me fosse in absentia; per l’appunto, cancellato: fantasma.
In pochi altri scrittori italiani del secondo Novecento ho trovato questo mistero, o meglio l’evidenza di questo mistero, la manifestazione del fantasma; gli illustri colleghi mi sono sempre sembrati tutti più integri, coerenti, meno schizofrenici, e — pur con caratteristiche di peculiare visionarietà — fermi nella loro moralizzante illusione o disillusione. In Bianciardi scrittore, saggista, giornalista di «Le Ore», traduttore «infedele» di Henry Miller, viene sempre a galla un contrasto, una lotta violenta fra tensione ideale e cruda realtà, che come i fantasmi fa paura.
È probabile che l’artista che abbia la croce o la delizia di portare in giro di sé contemporaneamente il proprio essere umano e il proprio essere fantasma, sia più portato di altri alla creazione e conseguente immediata distruzione di visioni; questo genere bipolare di artista inventa e si sconfessa da solo, vorrebbe creare una Arcadia ma finisce col non riuscire a non essere Cassandra. «Profeta cattivo», quindi, non perché sbagli la previsione, ma perché osa raccontare i fatti, scomodi o terrificanti che siano.
«Profeta cattivo» è il capitano Guzzetti ne La battaglia soda («E non sarà. Voglia il cielo ch’io sia cattivo profeta, ma anche in questo i piemontesi prevarranno, lasciando ai napoletani solamente i maccheroni e i mandolini, e pigliandosi il resto»), e profezie cattive sono sparse ovunque, nelle opere di Bianciardi: ci aveva indovinato, il maledetto, che televisori e bisogni si sarebbero moltiplicati, e che il terziario sarebbe diventato quaternario, «vaselina pura».
Io non sono cresciuto in Maremma prima della Seconda guerra, non ho preso la malaria, non sono mai stato al Bar Jamaica negli anni Cinquanta, e di Enzo Jannacci ho visto solo la salma esposta al Teatro Dal Verme in un bel giorno di sole. Ho visto tante volte Grosseto trasfigurata dal sole, ho visto il centro, i palazzi stile littorio e le casine basse che cominciano quando la città finisce, l’ippodromo e la stazione (quante storie, e quanti amici ci ho salutato). Conosco un po’ Milano, perché ci vivo da vent’anni: arrivai anch’io dalla Toscana, e mi ritrovai a fare il redattore in una rivista di giardinaggio per casalinghe. A dire il vero non mi piaceva mica tanto, Milano.
Odi et amo, ma più odi. L’ho scoperta lentamente, e l’ho vista cambiare. Adesso mi pare una città più bella, lo vedo negli occhi delle persone (persino negli sguardi tristi), nella voglia di uscire la sera della gente quando arriva la primavera. Mi sono innamorato di Milano come ci si può innamorare di una donna senza il colpo di fulmine.
Chissà cosa penserebbe il Bianciardi oggi, di Milano. E chissà se sarebbe fuggito da Grosseto. Forse sarebbe rimasto a casa, a battere mal pagato dietro lo schermo di un computerino. O forse sarebbe partito lo stesso, perché come dicono tutti con questa città ci si deve fare i conti, oggi come allora. Non so dire però se oggi a Milano sarebbe diventato il veggente che è stato. Mi piace pensarlo eterno, il profeta Bianciardi. Il pirata, il frustrato, il garibaldino, il pop, il lacerato-perché-sincero Bianciardi. Vendicatore mascherato, cattivo immortale, detector di patologie nel paziente dichiarato sano, di buche nelle strade asfaltate perché passa il Giro, di schizzi di sugo sulla tovaglia immacolata. Nel gioco contemporaneo ad andar tutti in video, a esser bravi a cinguettare aforismi elettronici, a esser scrittori tutti quanti, che personaggio sarebbe Bianciardi? Nel Paese mancato, disunito, che abbiamo costruito dal Risorgimento a oggi, nell’analfabetizzazione di ritorno mossa o amplificata dal web, nelle alzate di tono e nelle cadute di stile, nella paura degli zingari, dei barconi e di Allah, nel vociare da bar massificato, e con quest’arietta di populismo prefascista che tira, che lingua mai parlerebbe il profeta?
E chi lo sa. Accendo la lucina accanto al comodino e leggo Aprire il fuoco. Mi perdo nel periodare virtuosistico, in quel lessico gaddiano e classicista insieme, così faticoso eppure così necessario. Prima di addormentarmi penso agli eroi, al loro ruolo, e a quello degli intellettuali. Penso alle Cinque Giornate di Milano. Quelle del ’48, quelle inventate del ’59 e quelle del 2018 da inventare. Le ultime me le immagino come una finale a San Siro. E come facevo prima del sonno da bambino quando ancora ci credevo, mi raccomando a Gesù «ti prego, avvera questo: Bianciardi-Resto del Mondo cinque a zero». E buonanotte al secchio.