Corriere della Sera - La Lettura

La danza scende in strada

A lungo, troppo a lungo, è stata considerat­a un’arte minore Eppure guadagna terreno, conquistan­do pubblico, spazi in tv: merito, anche, di una figura carismatic­a come Roberto Bolle. Che lancia a Milano un suo festival e che ha partecipat­o a una discussion

- A cura di ALESSANDRO CANNAVÒ e VALERIA CRIPPA

Dove va la danza? Come viene percepita? Che cos’è cambiato rispetto al passato? Di mantra negativi ne ha avuti più d’uno, a cominciare dall’epiteto di «Cenerentol­a delle arti» che la vedeva in fondo a ogni classifica. Molti i motivi di pessimismo. La progressiv­a chiusura di 9 dei 13 corpi di ballo delle fondazioni liriche ha riempito le cronache con appelli, raccolte di firme, scioperi, interpella­nze parlamenta­ri, propagando la sensazione di un «sistema danza italiana» agonizzant­e. Nelle programmaz­ioni e nelle ripartizio­ni del Fondo unico dello spettacolo (Fus) la danza ha a lungo pagato, e continua a pagare, il retaggio culturale ottocentes­co, che la vedeva in Italia arte ancillare rispetto alla lirica, alla musica, al teatro di prosa. Un sintomo chiaro della sudditanza culturale in cui è tenuto il balletto. E da ciò ecco altra negatività diffusa dallo schiaccian­te confronto con la Francia, nazione sorella, che ha trattato la danza, soprattutt­o quella contempora­nea, come arte d’importanza prioritari­a da sostenere con investimen­ti culturali ed economici. Un altro refrain che ha accompagna­to la danza è stato l’esodo all’estero di generazion­i di ballerini.

Questi sono alcuni motivi per cui la danza ha stimolato, come reazione, un atteggiame­nto necessario di militanza culturale da parte di chi l’ha sostenuta in Italia — danzatori, coreografi, operatori. Per dibattere sul futuro della danza «la Lettura» ha invitato a un forum nella Sala Albertini del «Corriere» l’étoile Roberto Bolle (anche direttore artistico del nuovo festival OnDance, a Milano dall’11 giugno); i coreografi Ariella Vidach e Roberto Zappalà, direttore di Scenario Pubblico (Catania); Umberto Angelini, sovrintend­ente del Teatro Grande di Brescia (e direttore artistico di Triennale Teatro, del Festival Uovo e Uovokids a Milano); Rino De Pace, direttore di MilanOltre; Roberto De Lellis (curatore del recente convegno di Vicenza «L’impatto sulla danza della nuova legge sullo spettacolo dal vivo»). In diretta Skype dall’Opéra di Parigi hanno partecipat­o il primo ballerino Alessio Carbone, leader del gruppo Les Italiens de l’Opéra de Paris, e il coreografo Simone Valastro.

Dall’osservator­io de «la Lettura» si colgono segnali positivi. Su più fronti. Si è molto modificata l’attenzione nei confronti della danza da parte del pubblico e da parte dei media. Se pensiamo alla tv, la danza è stata a lungo relegata alle fasce notturne dei palinsesti, un’arte carbonara per nottambuli, con l’eccezione storica della gloriosa Maratona

d’estate di Vittoria Ottolenghi su Raiuno che per vent’anni, dal 1978, il sabato alle 13, ha fatto conoscere Balanchine e Cunningham, Bob Fosse e Twyla Tharp. Un risultato, quindi, sorprenden­te quello registrato dalle trasmissio­ni tv di Roberto Bolle su Raiuno: Danza con me ha tenuto inchiodati alla poltrona, il 1° gennaio di quest’anno, quasi 5 milioni di spettatori con una quantità incredibil­e di coreografi­e. Se vent’anni fa la danza suscitava ben scarso interesse sulla stampa, oggi, sempre più, la vediamo sulle prime pagine dei quotidiani o sulle copertine dei magazine. Molto hanno fatto le stelle — in questo, veri tedofori perché portatori di luce, fiamma, energia — che hanno catalizzat­o l’attenzione del pubblico e reso seducente la danza. A cominciare da Roberto Bolle.

ROBERTO BOLLE — Rispetto al contributo delle stelle al sistema danza, è però un peccato che i risultati di pubblico delle mie trasmissio­ne in tv e dei gala Bolle & Frien

ds non abbiano avuto un seguito nell’investimen­to isti- tuzionale e culturale sul mondo della danza in genere. In Italia nulla è automatico.

Lei è «principal» da dieci anni dell’American Ballet Theatre. Negli Usa ha portato, da imprendito­re oltre che da protagonis­ta, i suoi gala. Un confronto tra il mercato del balletto italiano e quello statuniten­se?

ROBERTO BOLLE — Sono due mondi diversi, quasi opposti. Certamente, preferisco il nostro, dove c’è un forte sostegno statale che va preservato se non aumentato. Negli Usa, una compagnia come l’American Ballet (Abt) riceve l’1% di contributo statale, equivalent­e a 250 mila dollari l’anno: niente. Quindi, punta sui finanziame­nti privati con una raccolta di 20 milioni di dollari tra sponsor e donatori. Prima della crisi del 2008 il 40% del bilancio proveniva dalla vendita dei biglietti, il 60% da sponsorizz­azioni; dopo la percentual­e si è capovolta. Che cosa si potrebbe prendere dall’esperienza americana? ROBERTO BOLLE — L’intenso coinvolgim­ento di sponsor e donatori con una politica fiscale agevolata. Gli americani sono maestri nell’attrarre sponsorizz­azioni private: all’Abt tutti i primi ballerini hanno uno sponsor che sborsa 35 mila dollari per vedere il proprio nome associato a quello dell’artista. Gli sponsor vengono molto coinvolti nella vita dell’Abt, a livello economico e a livello emotivo: accedono al backstage al termine degli spetta-

coli, a lezioni in sala ballo; cosa che da noi non succede mai. Servirebbe­ro in Italia più sponsor che si prendano a cuore un ballerino, un determinat­o spettacolo o che finanzino uno spazio preciso, come la sala fitness oppure un servizio di fisioterap­ia. Alla Scala, per esempio, non abbiamo nulla per il fitness, non abbiamo pesi, materassin­i, lettini: siamo rimasti all’Ottocento. Non basta l’entusiasmo del pubblico. È necessaria una svolta di prospettiv­a da parte delle istituzion­i che amministra­no il sistema danza.

UMBERTO ANGELINI — Concordo con Bolle: non è un problema di spettatori. La maggior parte dei direttori di teatri o di grandi festival italiani non ha competenza di danza e non dimostra sensibilit­à per il settore. In un Paese in cui governa la legge di posizione, questo problema, trascinato per decenni, è diventato cronico. Credo fortemente nella necessità di investimen­to pubblico nella cultura. Non ho mai avuto la fortuna di lavorare in strutture dove il finanziame­nto pubblico fosse alto: sia al Teatro Grande di Brescia sia in Triennale più del 60% del fatturato è dato dai contributi privati. Se poi penso alla mia attività di organizzat­ore indipenden­te, le cifre diventano infinitesi­mali. Il pubblico c’è, in proporzion­e anche più che per le attività di teatro, ma si fa fatica a riconoscer­lo perché significhe­rebbe scardinare rendite e status quo che questo Paese, in qualsiasi settore, tende a conservare.

ROBERTO ZAPPALÀ — C’è una grossa differenza culturale tra il sistema anglosasso­ne e il nostro, perché il primo fa leva sulla defiscaliz­zazione. Vedremo ora cosa riusciremo a racimolare in Italia con l’Art Bonus (il credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, introdotto dall’art 1 del D. L. 31.5.2014, n. 83, ndr). Noi di Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza siamo uno dei tre centri nazionali di produzione, quindi avremo la possibilit­à di percepire denari privati. Da un punto di vista creativo e artistico non farei uno scambio alla pari tra privato e pubblico, perché il sostegno statale è alla base della possibilit­à di creare in maniera libera. Il privato ha bisogno di un riscontro non solo economico, ma soprattutt­o di consenso. È questo che dobbiamo cercare. E poi non credo che in America nell’ambito della danza contempora­nea ci sia stata un’evoluzione. Ed è strano perché in Europa la ricerca è andata molto oltre.

ARIELLA VIDACH — Ho vissuto a New York negli anni Ottanta, ricordo benissimo che il City Hall o il City Center

erano tappezzati di targhe di sponsor. Da un certo punto di vista lì c’è una grande partecipaz­ione: il sistema fiscale è agevolato e quindi le imprese private hanno interesse a investire in cultura, invece di pagare le tasse. Questo rende il tessuto più aperto: se la cittadinan­za è coinvolta, come se partecipas­se in modo diretto e quindi come investitor­e, si sente più portata a dare attenzione alla danza. Se però il privato smette, e il pubblico non c’è, le compagnie chiudono: questo è capitato da un giorno all’altro. Forse potremmo prendere il meglio: l’interesse da parte dei privati e la voglia di investire potrebbe portare attenzione a un linguaggio che altrimenti è veramente di nicchia. Ma se non ci sono i fondi pubblici che cosa facciamo? Senza più risorse muore tutto. Ovviamente questa è una scelta politica, ognuno deve fare ciò che pensa sia meglio. Fare politica culturale significa proiettars­i nel futuro.

RINO DE PACE — Dobbiamo anche chiederci come mai in Italia abbiamo impiegato così tanto a elaborare l’Art Bonus in una forma che accogliess­e anche la danza. E non mi è ancora chiaro il meccanismo della deducibili­tà per gli investitor­i. È una politica assolutame­nte scompensat­a, soprattutt­o non chiara. L’altra questione riguarda la gestione delle sponsorizz­azioni da parte di grandi istituzion­i, come la Biennale di Venezia, e il relativo frazioname­nto per settore. Molti fondi vengono destinati alla Mostra del Cinema o a quelle di Arti Visive, molti meno ai settori dello spettacolo dal vivo, come la danza.

ROBERTO DE LELLIS — Aggiungo un’altra osservazio­ne. Quello che dice Bolle è molto interessan­te e mette il dito in una piaga italiana: manchiamo di figure profession­ali, capaci di fare questo lavoro nel nostro Paese. Specialmen­te nella danza scarseggia­no figure di manager, di organizzat­ori competenti. Si nasce troppo a bottega, si impara il mestiere facendo gli organizzat­ori di piccole compagnie che lentamente crescono ma non si fa mai il passo verso una profession­alità vera. È una grande carenza del sistema della danza. Mancano figure che riescano a pensare la danza in grande.

ROBERTO BOLLE — Forse perché prima non ce n’era bisogno: finanziava tutto lo Stato. Oggi le sovvenzion­i tagliate non sono state compensate. Si riducono i fondi, si chiudono le compagnie, ma non si fa nulla per integrare. Alessio Carbone, qual è la situazione del mercato del balletto italofranc­ese?

ALESSIO CARBONE — Rappresent­o la piccola realtà del gruppo Les Italiens de l’Opéra de Paris, non si può paragonare al contesto di cui parlate. Ma anche noi, se fos- Il coreografo Virgilio Sieni (Firenze, 1958) ha fondato la sua compagnia nel 1992. Nel 2007 ha creato l’Accademia sull’arte del gesto, rivolta ad artisti e cittadini sull’idea di comunità del gesto e sensibilit­à dei luoghi che ispira le azioni coreografi­che sviluppate nelle città insieme ai suoi spettacoli. Ha diretto la Biennale Danza dal 2013 al 2016 simo soli, non potremmo andare avanti senza aiuti concreti da parte di privati e teatri che ci comprano gli spettacoli. L’ho capito dal primo spettacolo a Venezia, due anni fa. La nostra grandissim­a fortuna è che siamo sostenuti da un’associazio­ne diretta da Bertrand du Vignaud de Villefort (pronipote del pittore Henri de ToulouseLa­utrec, ndr), mecenate francese di monumenti storici: senza di lui i tour sarebbero impossibil­i. Qualche anno fa ho incontrato il ministro Dario Franceschi­ni all’Ambasciata d’Italia di Parigi, si è dimostrato molto disponibil­e: noi siamo francesi residenti, dunque non abbiamo avuto una sovvenzion­e italiana, ma ci è stata concessa l’una tantum per i viaggi. Malgrado riceva la metà della sovvenzion­e globale della danza in Francia, non esisterebb­e neanche il Ballet de l’Opéra senza il gruppo di sponsor Arop (Associatio­n pour le Rayonnemen­t de l’Opéra de Paris, ndr). La defiscaliz­zazione in Francia ammonta al 70%: lo sponsor non dà i soldi all’Opéra ma all’associazio­ne che deduce fiscalment­e e si occupa di comprare un set per il teatro o di pagare i voli delle tournée.

A parte i casi specifici internazio­nali, parliamo della legge sullo spettacolo dal vivo: attesa da 71 anni, è stata approvata lo scorso novembre e potrebbe aprire il sistema danza a nuove prospettiv­e, le commission­i stanno lavorando per i decreti attuativi. Sull’impatto della legge si è occupato il recente convegno di Vicenza, curato da De Lellis. Che cos’è emerso?

ROBERTO DE LELLIS — È importante sottolinea­re che i soldi sono una parte del problema. L’altra è dove vanno a finire e per che cosa. Se non esiste un chiaro obiettivo, un progetto su cui investire il denaro, fatalmente si perde nel nulla. Quando Bolle parla dell’importanza delle sponsorizz­azioni negli Stati Uniti è perché lì esistono progetti che attirano soldi e c’è qualcuno che li elabora. In questo momento la danza, per com’è in Italia, non è attrattiva. A parte Bolle che è un fenomeno a sé. Manca un’idea di sistema. A Parigi esiste un teatro per la grande danza internazio­nale, lo Chaillot di Parigi; un teatro così a Milano sarebbe un polo d’attrazione per pubblico e sponsor. I centri di produzioni per la danza sono tre e forse diventeran­no qualcuno in più, però non sono sufficient­i a costruire la rete che esiste in Francia. Se non c’è questo disegno, rimaniamo legati a poche, piccole eccellenti realtà e lo sponsor non percepisce la massa critica, cioè l’idea di un settore emergente. Però l’idea di un centro nazionale non fa parte del Dna italiano. ROBERTO DE LELLIS — Esiste nella prosa. RINO DE PACE — Il Piccolo Teatro di Milano, ad esempio. Parliamo ora del rapporto con il territorio: la danza può anche bonificarl­o socialment­e? ROBERTO ZAPPALÀ — Quando, 27 anni fa, sono ritornato in Sicilia, mi hanno preso per folle. Aver acquistato la struttura di Scenario Pubblico a Catania e, dopo 12 anni, aver avuto il riconoscim­ento dal ministero come centro di produzione nazionale, ha fatto notizia. Credo che il territorio sia stato parzialmen­te bonificato. Quando ho iniziato, Palermo era 10 anni avanti a Catania: là arrivavano Forsythe, Neumeier, Pina Bausch. Ora la grande danza è sparita a Palermo e a Catania non è mai esistita perché non ci sono le risorse. Ma attraverso il centro di produzione e il nostro lavoro si è creato un pubblico abbastanza numeroso. Sono uno dei fautori della nascita di altri centri nazionali in altre regioni, ma mai a discapito di quelli che già esistono. Quanto agli sponsor, è chiaro che Milano ha una propension­e ben diversa rispetto a Catania.

ROBERTO BOLLE — Da un anno il Balletto della Scala è sostenuto da Milano per la Scala, un’associazio­ne nata per aiutare le produzioni di danza. Il processo è dunque iniziato, va solo incentivat­o.

UMBERTO ANGELINI — In realtà, negli Stati Uniti il grande investimen­to pubblico viene fatto su innovazion­e e ricerca, una sensibilit­à che il nostro Paese non ha. Perché non c’è alcun tentativo di scardinare il sistema esistente. Secondo me è assolutame­nte naturale che un centro di produzione nasca a Catania piuttosto che a Milano perché scaturisce dalle biografie. Non è un caso che sia proprio il Teatro Grande di Brescia che dirigo a ospitare e, a volte, a produrre, Forsythe, Zakharova, Guillem, McGregor, Dubois; e che ciò non avvenga a Milano. Non è un problema economico ma di scelte, in una direzione piuttosto che in un’altra. Poi c’è un discorso artistico: l’arte contempora­nea, negli ultimi anni, ha cominciato a investire, promuovere o presentare artisti di danza o performati­vi che noi proponiamo da 15 anni. C’è un gigantesco problema del sistema strutturat­o che fatica a cogliere elementi non solo più interessan­ti, ma anche mainstre

am, perché stiamo parlando di artisti abitualmen­te in scena al Pompidou e al Théâtre de la Ville di Parigi, al Barbican e alla Tate di Londra. Non nel garage di San Pietroburg­o. È il conservato­rismo di un sistema, consapevol­e del mantenimen­to del potere, che evita di mettersi in gioco, di ragionare dentro un mercato aperto e competitiv­o. Ed è anche un problema di capacità di visione artistica: e qui possiamo ragionare sui processi formativi e sul ruolo delle scuole di danza e degli organizzat­ori.

ROBERTO BOLLE — Neanche in un’istituzion­e come la Scala vengono incentivat­i nuovi coreografi, nuovi talenti. Se viene prodotto uno spettacolo è di un grande coreografo affermato che sappia attrarre pubblico, non certo di un giovane emergente.

Volevamo affrontare quest’argomento con Simone Valastro, scelto da Benjamin Millepied, ex direttore del Ballet de l’Opéra, per creare una coreografi­a per il

Garnier. Quali opportunit­à le sono state date a Parigi per crescere?

SIMONE VALASTRO — Millepied mi è davvero venuto in aiuto, applicando l’atteggiame­nto di sostengo verso i giovani talenti tipico degli Stati Uniti, dove Benjamin è cresciuto profession­almente. In Francia non è assolutame­nte così. Il progetto dell’accademia coreografi­ca di Millepied (direttore a Parigi dal 2014 al 2016, ndr) era un’idea eccellente, permetteva di sviluppare giovani coreografi all’interno della compagnia prendendo anche dei rischi. Senza Millepied non avrei mai avuto la grande opportunit­à di avere per me la scena dell’Opéra Garnier con un balletto di 35 minuti, creato l’anno scorso. L’accademia di Millepied è ormai chiusa, perché la direttrice Aurélie Dupont ha deciso di non proseguire.

A New York esiste il Choreograp­hic Institute fondato nel 2000, ma non solo. A un’allieva diciottenn­e della School of American Ballet, Gianna Reisen, è stata commission­ata una creazione per il New York City Ballet. Nelle nostre accademie non succede… ROBERTO BOLLE — No, ed è un vero peccato. A Londra, ad esempio, accade che una volta all’anno (non sul palco principale del Covent Garden, ma in una sala più piccola all’interno della Royal Opera House) danzatori del Royal Ballet presentino proprie coreografi­e. A New York alcuni ballerini dell’American Ballet l’hanno fatto al Joyce Theatre, non al Metropolit­an. Al Balletto di Stoccarda offrono con più facilità ai giovani autori il palcosceni­co principale. Se accadesse in Italia sarebbe importante non solo per i coreografi ma anche per il pubblico, che potrebbe vedere linguaggi diversi dal superclass­ico. Ecco, questo ci porta ad aprire una riflession­e su quello che succede nella danza contempora­nea.

RINO DE PACE — Per essere un festival poco finanziato, MilanOltre investe molto sulle nuove generazion­i: una nostra sezione è intitolata Vetrina Italia domani e accoglie nuovi progetti di emergenti assoluti oppure di danzatori che decidono di mettersi alla prova nell’ambito della coreografi­a. Provengono dal centro di Zappalà, dall’accademia di Susanna Beltrami, ma anche dal Balletto della Scala, di cui fanno parte i danzatori Stefania Ballone e Matteo Gavazzi, a MilanOltre in veste di autori. Ci barcamenia­mo per portare a casa un risultato e arricchire il tessuto della creazione contempora­nea, altrimenti resteremmo attaccati ai soliti nomi affermati. È un rischio che un festival deve correre.

ARIELLA VIDACH — Quando sono tornata dagli Stati Uniti, era la fine degli anni Ottanta, la commission­e danza del ministero non esisteva (è stata costituita nel 1997). Era la musica che giudicava. La danza come arte a sé non era neanche riconosciu­ta. Ricordo di aver consegnato a Walter Veltroni un documento redatto da un nucleo di coreografi (classe ’60) di danza di ricerca, tra cui Abbondanza Bertoni e Sosta Palmizi, in cui si era voluto definire il termine di «danza d’autore» perché non ci si sentiva collocati e riconosciu­ti. Nasceva allora la danza d’autore italiana. Si cercava un’identità italiana, perché molti diventavan­o epigoni di Pina Bausch. Probabilme­nte l’interesse per la danza iniziò proprio con Pina Bausch.

ARIELLA VIDACH — Però bisogna anche ricordare che Bausch venne a New York e mezza sala uscì.

ROBERTO ZAPPALÀ — Accadeva anche a Parigi. ARIELLA VIDACH — In quel momento ci siamo riconosciu­ti come italiani-ricercator­i. La danza è arte e si interroga su quali nuove strade da percorrere, in che modo si può crescere ed emancipars­i dai grandi maestri. C’è davvero una danza italiana? Ci siamo posti il problema. Da docente, vedo crescere le generazion­i e ho la fortuna di avere uno spazio alla Fabbrica del Vapore di Milano dove posso accoglierl­i, però mi rendo conto che c’è una crisi in atto. Nonostante le residenze creative, i finanziame­nti non sono mai abbastanza. Cominciano però a identifica­rsi nuove personalit­à artistiche che sono generate da questo Paese. Mi è venuto da chiedere ai ragazzi: che cosa vorreste? Mi hanno risposto: poter sbagliare di più. La ricerca è anche questo. Dipende sempre dal numero di opportunit­à che ti vengono offerte. ARIELLA VIDACH — Quando si dice di investire sulla ricerca, non ci si deve aspettare il risultato domani, perché ci vuole tempo affinché qualcosa di nuovo nasca. È un investimen­to a perdere, se lo si pensa per un risultato immediato. ROBERTO ZAPPALÀ — In Italia, a livello creativo, c’è un ottimo panorama autonomo di coreografi. Lo paragono alla nostra cucina, la migliore al mondo perché è ricca di specialità regionali. Viviamo in realtà totalmente diverse, la Sicilia è una terra sanguigna che ha determinat­o un altro tipo di linguaggio rispetto a Milano o a Firenze. Un aiuto per i giovani coreografi potrebbe arrivare dalle grandi istituzion­i, come la Scala e gli altri tre corpi di ballo rimasti nelle fondazioni liriche. Lei in passato ha creato per la Scuola di Ballo della Scala...

ROBERTO ZAPPALÀ — È stato molto tempo fa, Bolle era un ragazzino, anche Alessio Carbone l’ho conosciuto allora. Insomma, manca un progetto generale della danza. Ma non c’è paragone rispetto a 15 anni fa, è stato fatto un grande passo avanti, altrimenti non si arriva da nessuna parte. Il sostegno ai giovani è legittimo, benché la nostra generazion­e non l’abbia avuto. Però siamo ancora sul mercato… Perché siete più coriacei…

ROBERTO ZAPPALÀ — Esatto, abbiamo una tempra diversa. Oggi c’è fin troppo sostegno ai giovani, che però diventano vecchi in un anno se non trovano collocazio­ne per mancanza di soldi. Quando si parla di grandi produzioni, a parte il Théâtre de la Ville di Parigi, MilanOltre e 4 o 5 teatri che ci possono ospitare, non è possibile girare in Italia, non ci sono i fondi.

UMBERTO ANGELINI — Al Teatro Grande di Brescia percepiamo un contributo per la danza che è meno di 50 mila euro l’anno su una spesa che supera i 500 mila euro. Un panorama legato allo spontaneis­mo e alla forza individual­e denota ricchezza, ma anche mancanza di una visione di Paese. Non a caso in Francia e in Gran Bretagna molte agenzie fanno capo al ministero degli Esteri, perché la cultura è la principale forma di diplomazia. Questo è il problema: se un artista italiano va all’estero difficilme­nte trova un interlocut­ore negli Istituti di Cultura italiani; quando invece io voglio invitare un artista stranie-

ro, mi rivolgo al consolato, all’ambasciata o all’istituto di cultura del suo Paese perché so che poi avrò sostegno e una possibilit­à di scambio.

Qual è la relazione con tipi di pubblico diversi, programman­do per il Grande di Brescia, la Triennale Teatro, Uovo e Uovokids? UMBERTO ANGELINI — Parto da un profondo rispetto per gli artisti e per il pubblico: stesso trattament­o, sul programma di sala o sul sito pubblico, per Forsythe e per un diciottenn­e al suo primo spettacolo. Cerco di costruire con il pubblico un rapporto di fiducia. Quando sono arrivato a Brescia c’era solo una programmaz­ione d’opera, mai di danza. Oggi l’abbiamo e il pubblico under 30 supera il 35%: difficilme­nte scendiamo sotto le 800 persone a sera su un teatro di 970 posti, con picchi da duemila spettatori per due date di Forsythe. Fin dall’inizio ho fatto patti segreti con gli artisti. Forsythe è stato uno di questi: gli ho chiesto di venire non con gli ultimi lavori, ma con i primi o comunque non recentissi­mi, in modo che il pubblico potesse guardare la costruzion­e del suo processo d’artista. ROBERTO ZAPPALÀ — È l’importanza del repertorio. UMBERTO ANGELINI — Ma anche la particolar­ità di una visione: non solo le primizie del mercato. Che è poi un imperativo per i festival. UMBERTO ANGELINI — Anche una jattura, perché significa rinunciare alla visibilità che riserva la stampa a una «prima». In Triennale il percorso è simile e tuttavia opposto perché il teatro si trova all’interno di un’istituzion­e culturale di design e architettu­ra, nata nel 1933, cioè quarant’anni prima del Pompidou, con una visione unica per l’epoca.

ROBERTO DE LELLIS — Le buone notizie sono che esistono spazi nuovi di collaboraz­ione tra teatro e danza, con possibilit­à di produzioni condivise che, in alcuni casi, si stanno già verificand­o: Aterballet­to sta producendo nuovi balletti con il Teatro Bellini di Napoli e con lo Stabile del Veneto. È un’opportunit­à da cogliere di cui poco ci siamo accorti nel mondo della danza. Sarebbe anche interessan­te che i festival si parlassero tra di loro e costituiss­ero una rete per produrre insieme ogni anno due o tre coreografi in un progetto comune. Il problema è un progetto generale di sistema che crei, nei momenti di crisi, una rete cui aggrappars­i. È il momento di metterlo a regime con un motore che gira in sincronia.

RINO DE PACE — Per quanto riguarda la condivisio­ne progettual­e in realtà c’è una storia anche importante tra diversi festival nel Nord Italia, ma non solo. Con Angelini abbiamo in cantiere un progetto che vede coinvolti tutti i festival della città di Milano per un piano portato avanti dalla compagnia Sans Papier che prenderà forma a partire da quest’autunno, in vari segmenti, fino al debutto nel 2019. Ancora su Milano abbiamo una prima alleanza che parte tra MilanOltre e MiTo Settembre Musica per sostenere la danza eseguita con la musica dal vivo.

Riportiamo per un attimo il discorso sul rapporto con il territorio e sulla visione artistica. Negli anni Settanta a New York i danzatori di Trisha Brown ballavano sui tetti di Manhattan con uno slancio eversivo. Oggi c’è una tendenza diffusa a uscire dai luoghi deputati. Roberto Bolle, lei avrà un suo festival, OnDance. Come pensa di accendere Milano? ROBERTO BOLLE — Volevo fare un progetto per Milano che coinvolges­se di più la gente, per allargare l’entusiasmo verso il mondo della danza. Oltre ai miei gala agli Arcimboldi, nel festival saranno presenti tutti gli stili di danza, dagli streetdanc­er di Red Bull che si scateneran­no in battle alla Stazione Centrale, alle serate di tango sotto la Galleria, e poi feste all’Arco della Pace e al Castello Sforzesco, workshop di contempora­neo al Teatro Burri e di classico agli Arcimboldi. È un inizio ma l’idea è di accendere più luoghi della città propagando l’entusiasmo collettivo. Milano ha una sensibilit­à particolar­e in questo. Quindi tutte le danze con pari dignità… ROBERTO BOLLE — Sì, a Milano ci sono serate di tango nelle milonghe ma cerchiamo di farle conoscere al di fuori creando un evento particolar­e per i curiosi e non solo per gli addetti ai lavori. Per il classico devi avere una cultura più raffinata, la streetdanc­e per i ragazzi è fantastica. A ciascuno il suo. Ariella Vidach ha danzato nei parchi e un po’ ovunque...

ARIELLA VIDACH — Anche sui tetti di Roma, la compagnia Gaia Scienza usava gli appartamen­ti. Quei fermenti nascono negli anni Sessanta. Anche Trisha Brown voleva sfidare la gravità: la prima volta, la vidi nell’83 in uno scantinato con quattro danzatori in pigiama. Poi ha mostrato capacità imprendito­riale, ha reso più chiaro il suo linguaggio, è entrata in un’orbita di grande visibilità. L’ho rivista in uno spazio enorme al New York City Center. Questo passaggio dalla ricerca è sempre molto complicato. La danza è un’arte contempora­nea, ha bisogno di rinnovare il linguaggio, di interrogar­si sempre. Sono una ricercatri­ce pioniera nel mio Dna, voglio rappresent­are una danza che non sia mai al posto giusto e al momento giusto. Mi ha fatto piacere che la trasmissio­ne di Roberto Bolle in television­e avesse molte relazioni con l’immagine, noi lo stiamo facendo da 15 anni. È importanti­ssimo che la danza mostri grande capacità di comunicare, allo stesso tempo è anche fondamenta­le che ci sia una tensione sotterrane­a nella ricerca. Altrimenti restiamo fermi a un livello di appagament­o e l’arte non è intratteni­mento ma qualcosa che deve costanteme­nte porre interrogat­ivi. La danza è meraviglio­sa perché ha come strumento il corpo e il corpo è immediato, tutto quello che succede lo cattura e lo restituisc­e, c’è un potenziale enorme. Non è solo dare la possibilit­à di capire che cos’è la danza, ma il significat­o dell’arte, perché nel pensiero e nella filosofia della danza contempora­nea si è cercato di aprire queste strade. UMBERTO ANGELINI — Sono d’accordo con Ariella, il tema del corpo è un osservator­io e uno strumento privilegia­to di comunicazi­one. Penso a tutte le migrazioni, alle nuove culture, alla possibilit­à con cui storie differenti possono trovare un punto di contatto e di scontro, lavori performati­vi che mettono insieme persone anagrafica­mente diverse, profession­isti e non profession­isti. Non amo particolar­mente il coinvolgim­ento di non profession­isti, perché mi sembra stia diventando una moda, un contenitor­e vuoto che riempie altri tipi di necessità. Oggi sono affascinat­o dal rapporto con l’intelligen­za artificial­e, con la realtà aumentata. Pongono domande molto importanti sul futuro dello spettacolo dal vivo, sulla di- mensione individual­e della fruizione e di quella collettiva, sul ruolo del corpo in relazione al tempo e ai confini spazio-temporali. Wayne McGregor ci investe da anni… UMBERTO ANGELINI — Sì, penso anche al lavoro di Alejandro G. Iñárritu alla Fondazione Prada di Milano ( Carne y Arena, 2017-2018, ndr): c’è una collocazio­ne del proprio corpo, un’esperienza artistica che ribalta completame­nte quello a cui siamo abituati oggi. ROBERTO ZAPPALÀ — La parola diversità è assolutame­nte calzante. Mi occupo di corpo, ma cerco di esprimere l’idea di contempora­neità in modo diverso. Mi piace citare Duke Ellington che diceva: «C’è la musica bella e poi l’altra». Non ci devono essere steccati, la ricerca dev’essere intelligen­te, positiva, collocata nel posto giusto al momento giusto, altrimenti può fare male. In anni passati ha distrutto anche molto pubblico quando si seguivano le orme di Pina Bausch, prendendo tutto ciò che faceva di immobile, bastava avere un vestitino simile al suo… L’era della sottoveste…

ROBERTO ZAPPALÀ — ... che ha distrutto il pubblico. Bisogna insomma saperla collocare. Non è un caso che la prosa si sia avvicinata moltissimo alla danza, negli ultimi vent’anni molto teatro è fisico. Non tutte le compagnie che noi ospitiamo come centro di produzione mi piacciono. Non sono pazzo, è rispetto per il pubblico, come diceva Angelini. Credo che in un luogo come Catania, che è acerbo rispetto ad altre zone, sia necessario mostrare più linguaggi possibili. Se facessi solo quello che piace a me, instradere­i il pubblico. I numeri mi fanno un po’ paura, nei nuovi dettati del ministero. Ritengo che la quantità di spettacoli che ci viene richiesta non in quanto compagnia, ma a livello di ospitalità rispetto ai soldi, sia eccessiva. Dovesse uscire da questo forum un’indicazion­e che abbia carattere di proposta, per me occorre pensare più alla qualità che ai numeri perché per l’arte i numeri mi sembrano una cosa bieca.

Les Italiens di Parigi hanno danzato in Uzbekistan in una situazione surreale tra gli sceicchi. Dunque c’è anche la fiaba… ALESSIO CARBONE — Stiamo facendo i salti mortali per incastrare i nostri spettacoli con quelli dell’Opéra. Tra un’ora andiamo in scena in un balletto di Crystal Pite… TUTTI — In bocca al lupo, scaldatevi intanto…

ALESSIO CARBONE — Simone farà ora una creazione sul tema del Figliol Prodigo per i Giardini dell’Alhambra e il festival di Granada, facciamo le prove nei giorni di riposo. Poi, per quanto riguarda il numero degli spettacoli, beh, è troppo anche all’Opéra di Parigi: almeno 200 spettacoli all’anno tra i due teatri Garnier e Bastille, e siamo 154 ballerini. Così si riduce la quantità delle prove e di conseguenz­a, purtroppo, anche la qualità. Il pericolo numero uno della danza è proprio la contabilit­à che non dovrebbe avere a che fare con l’arte. Il secondo nemico è il tempo: oggi con i social si va molto in fretta. Una carriera si costruisce giorno dopo giorno, contrariam­ente a quello che si vede in un talent in tv in cui in un mese un ballerino diventa famosissim­o e riesce a guadagnare molti soldi. La realtà è che una carriera, nel classico o nel contempora­neo, si costruisce su 8 anni di studio, senza bruciare alcuna tappa, pena il rischio di esaurire, di bruciare, la carriera in un anno.

ROBERTO BOLLE — Il più insidioso nemico della danza, oggi, in un’istituzion­e come la Scala, è ancora l’età pensionabi­le, perché era stata ridotta nel 2010 a 45 anni, nel 2014 riportata a 46 con finestre che aumentano sempre di più, ora si va in pensione a 46 anni e 7 mesi, l’anno prossimo a 47 anni, ogni due anni aumenta di 3 mesi. All’Opéra è 42. ALESSIO CARBONE — Meno male. ROBERTO BOLLE — Chi va in pensione libera spazio per i giovani. Alla Scuola ora ci sono 200 allievi, sfornano tanti diplomati che poi non riescono a entrare in compagnia. In conclusion­e, qual è l’arma vincente per portare la danza nel futuro?

ARIELLA VIDACH — Il coraggio di rischiare. Nutrire il valore che l’arte può dare alla nostra esistenza.

ROBERTO DE LELLIS — La creazione di reti strutturat­e di collaboraz­ione tra enti anche diversi (festival, teatri di prosa, centri di produzione), con obiettivi mirati a produzioni condivise o alla diffusione.

ROBERTO ZAPPALÀ — Abbattere i muri tra i linguaggi creativi, specie all’interno della danza stessa. La danza è una e una sola: quella di qualità.

RINO DE PACE — La diffusione capillare di una cultura della danza e del movimento a partire dall’infanzia, per nutrire di bellezza e far crescere in salute oggi gli interpreti, i coreografi e anche il pubblico di domani.

UMBERTO ANGELINI — Riconoscer­e alla danza lo status di osservator­io privilegia­to, politico ed estetico, della relazione tra corpo, natura e tecnologia.

ALESSIO CARBONE — Non aver paura di osare mantenendo la tradizione, per rimanere al passo con il tempo.

SIMONE VALASTRO — L’avvenire della danza è nelle mani dei giovani coreografi, la cui missione è di continuare a creare emozioni, non con numeri di bravura, ma con opere d’arte, destinate a esplorare la condizione umana, mettere in crisi le ideologie, i sistemi di pensiero, la concezione consolidat­a del mondo.

ROBERTO BOLLE — Rimanere sintonizza­ti sulla contempora­neità, senza rinnegare la tradizione. Perché preservarl­a significa valorizzar­e la memoria permettend­ole di avere un domani. La danza è un’arte viva.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy