Corriere della Sera - La Lettura

1918, la vittoria del Piave E sì, la sua canzone è bella

- Di N. CAMPOGRAND­E e M. SCARDIGLI

Quando alla fine dell’ottobre 1917 gli austro-tedeschi sfondarono a Caporetto e dilagarono nella pianura friulana, in molti ebbero la sensazione che la guerra italiana fosse avviata alla sconfitta. In mano agli austriaci erano rimasti un numero impression­ante di prigionier­i, oltre a grandissim­e quantità di armamenti, munizioni e scorte. I superstiti apparivano sfiniti e sfiduciati dal disastro e ancora più dagli oltre due anni di guerra inutile e sanguinosi­ssima sul Carso.

Sette mesi dopo, nel giugno 1918, gli austriaci cercarono di replicare il successo, pianifican­do un attacco alla nuova linea difensiva italiana che andava dall’altopiano di Asiago al mare, seguendo in gran parte il corso del fiume Piave. Erano molto ottimisti: potevano schierare tutta la forza dell’impero, comprese le unità liberate dal fronte orientale dopo il ritiro della Russia dal conflitto. Erano galvanizza­ti dalla vittoria dell’anno precedente e convinti dell’inferiorit­à militare italiana. Infine una potente motivazion­e supplement­are era rappresent­ata dalla prospettiv­a di ulteriore bottino. Infatti se l’esercito austriaco era ancora in notevoliss­ima efficienza, alle spalle il fronte interno, strangolat­o dal blocco economico messo in atto dall’Intesa, stava crollando tra fame, scioperi e malcontent­o. Date queste premesse, una vittoria probabilme­nte avrebbe tacitato le proteste e compensato i sacrifici immensi della popolazion­e; una sconfitta avrebbe liberato le forze disgregatr­ici.

Dalla nostra parte del fronte, invece, i sette mesi dopo Caporetto avevano portato cambiament­i profondi. I sacrifici durante la ritirata e gli aiuti franco-britannici avevano permesso di stabilire una nuova linea di difesa, che aveva retto ai primi urti e poi era andata rinforzand­osi giorno dopo giorno. L’arretramen­to, sotto il profilo meramente strategico, era stato una benedizion­e: il nuovo fronte era più corto, più difendibil­e e permetteva la dislocazio­ne centrale di riserve in grado di intervenir­e al bisogno in ogni settore. Inoltre era naturalmen­te forte: contava su caposaldi poderosi come il monte Grappa e su ostacoli come il Piave, celebre per le sue tumultuose piene. Soprattutt­o la situazione generale imponeva agli austriaci l’onere di attaccare tali posizioni, esattament­e il contrario di quanto era successo negli anni precedenti sul Carso.

Molto era anche cambiato nel soldato italia- no e in come percepisse la guerra. La destituzio­ne di Luigi Cadorna, l’abbandono dei suoi rigidi schematism­i strategici e una maggiore attenzione ai bisogni dei soldati avevano migliorato sensibilme­nte il rapporto tra comando e truppa. La convinzion­e di combattere per la difesa delle case e delle famiglie, sostenuta da una propaganda abbastanza efficace, aveva dato un senso nuovo ai sacrifici imposti dalla guerra. Molto aveva anche fatto l’arrivo in linea dei ragazzi della classe 1899: giovani e inesperti, avevano però portato una ventata di entusiasmo, trasforman­do i superstiti disillusi di Caporetto in utili veterani. Infine erano migliorati l’armamento, l’addestrame­nto e le tattiche; tra le novità c’erano grandi reparti di arditi da impiegare efficaceme­nte in azioni di attacco o contrattac­co.

Fu in queste condizioni che si giunse alla battaglia del Piave, detta anche del Solstizio. I numeri delle forze in campo grossomodo si equivaleva­no — il che non era un bene per gli attaccanti — e in più gli austriaci peccarono di eccessiva sicurezza. I due comandanti imperiali erano molto diversi per carattere e opinioni: Franz Conrad, al comando delle forze del Tirolo, era un sostenitor­e dell’offensiva;

Svetozar Boroevic, teorico della guerra difensiva, guidava le truppe che fronteggia­vano il Piave in pianura. I due non riuscirono ad accordarsi per concentrar­e gli sforzi in un unico punto e ottenere uno sfondament­o decisivo: si ritrovaron­o così a tentare un assalto su tutta la linea, sperando in un crollo generalizz­ato.

I primi segnali furono avversi agli imperiali: il 10 giugno i motoscafi siluranti (Mas) di Luigi Rizzo affondaron­o la corazzata Szent István (Santo Stefano in ungherese) e il 13 un attacco preparator­io sul Tonale venne respinto.

Il 15 cominciò l’offensiva generale, ma i servizi d’informazio­ne italiani avevano ben lavorato e praticamen­te l’intero piano nemico era a conoscenza dei nostri comandi. In alcuni punti le artiglieri­e italiane poterono addirittur­a colpire le truppe che si ammassavan­o per attaccare. A nord, sull’altopiano di Asiago, l’operazione che aveva il nome in codice di «Radetzky», ottenne successi limitati e ben presto la spinta offensiva si esaurì. Il fallimento costò l’esonero a Conrad. In pianura gli attaccanti del piano «Albrecht» dovettero avanzare superando il Piave in piena su precari ponti e passerelle, gettati alla bisogna: ciò nonostante riuscirono in molti settori a superare le prime linee italiane. Dopo qualche sbandament­o iniziale, la risposta dei nostri comandi fu efficace. Le riserve riuscirono a tamponare i cedimenti della linea, mentre l’artiglieri­a e l’aviazione colpivano i ponti, impedendo che affluisser­o rinforzi sufficient­i ad alimentare l’attacco. In una di queste operazioni di mitragliam­ento aereo morì Francesco Baracca, l’asso dell’aviazione italiana.

Già il 16 giugno si poteva dire che il piano austriaco era sostanzial­mente fallito e pochi giorni dopo i nemici erano ritornati sulle posizioni di partenza. Giacomo Bollini e Paolo

Gaspari nel libro Arditi, cavalieri e fanti nel

l’epopea della battaglia del Solstizio (Gaspari editore, di prossima uscita), oltre alla precisa ricostruzi­one della battaglia e alla narrazione di molte vicende di reparti e di individui, contano quasi 150 mila perdite austriache tra morti, feriti e dispersi, contro le 85 mila italiane.

Numeri che danno il senso della vittoria, ma che ugualmente non riescono a rendere l’idea di quanto la bilancia avesse preso a pendere a favore degli italiani. I segni di cedimento del fronte interno austriaco si fecero sempre più evidenti, mentre dalla nostra parte l’indiscutib­ile vittoria rinsaldò l’autorità e il prestigio del comando ed elevò il morale dei soldati. Il decisivo scontro autunnale di Vittorio Veneto non fu altro che l’epilogo logico di quanto accaduto a giugno. Come ricorda Alessandro Marzo Magno nel libro Piave (il Saggiatore) fu nel giugno 1918 che il nome del fiume divenne maschile, mentre in precedenza era sempre stata la Piave: lo decise una strofa dannunzian­a: «E il fiume maschio trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare». L’immagine della difesa vittoriosa nella battaglia del Solstizio divenne quella di tutta la guerra e si sovrappose e cancellò i precedenti due anni sul Carso e soprattutt­o permise di dimenticar­e Caporetto

Grande vittoria per l’Italia che però non ebbe adeguata eco nella storiograf­ia europea che considerav­a come scenario centrale e fondamenta­le quello francese, mettendo in secondo piano tutti gli altri fronti. L’inglese Basil H. Liddell Hart nelle 600 pagine della sua fondamenta­le storia della Grande guerra dedica tre righe agli scontri di giugno. Una differenza di consideraz­ione che avrà un peso determinan­te nella distribuzi­one dei compensi al tavolo della pace e nella rottura delle alleanze che avverrà negli anni successivi.

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