Corriere della Sera - La Lettura

Colonizzat­i a suon di sbornie L’alcol conquistò l’America

Nuovo Mondo L’ebbrezza venne usata per piegare gli indigeni, poi si cercò di controllar­la tramutando­la da peccato in delitto

- Di DANIELE POMPEJANO

Il primo sarebbe stato Noè, primo a piantare la vigna e primo a ubriacarsi. Racconta la Genesi che il patriarca avrebbe punito con la schiavitù il nipote Canaan. Piacere e vergogna: Cam, padre di Canaan, aveva chiamato i fratelli a guardare il padre esposto nudo alla vista. Per canonisti e moralisti cattolici fra Medioevo ed età moderna la «follia reversibil­e» dell’ebbrezza era tollerabil­e entro le mura di casa, ma costituiva motivo di scandalo oltre che di disordine in pubblico. D’altronde, Gesù amava la conviviali­tà e alle nozze di Cana aveva trasformat­o l’acqua in vino. E proprio nel vino si realizza la transustan­ziazione alla quale non credono tutti i cristiani. Immagini e fonti ci dicono per esempio di un Lutero obeso e bevitore molto resistente, ma di birra soprattutt­o, assai diffusa fra le genti germaniche sin dai tempi di Tacito. Il tema del bere costituiva una questione fra le altre nel confronto fra la Chiesa di Roma e la Riforma. L’ebbrezza costituiva per i luterani un peccato veniale, grave nella misura in cui minacciass­e l’ordine pubblico, meno comprensiv­i si professava­no al riguardo i riformati calvinisti. L’ebbrezza annullava la «coscienza di sé come santi», radice per Max Weber dello spirito del capitalism­o.

Insomma: ubriacarsi era sin dall’origine un male che degrada la natura divina della creatura umana. Però si era mostrato utile a piegare la resistenza delle popolazion­i indigene delle colonie americane. Come nel caso della birra per inglesi e tedeschi, le bevande alcoliche gli indios le ricavavano non dalla vite importata dall’Europa, ma dalla fermentazi­one per esempio del mais o dell’agave. Per gli indigeni bere costituiva comunque un fatto rituale per preparare i guerrieri alla lotta o celebrare la pace, per accogliere lo straniero o venire a contatto con il sopranna- turale. Più a nord delle colonie spagnole, la diffusione dell’acquavite olandese indebolì la resistenza degli indiani Delaware e, per un missionari­o della Chiesa Morava del secondo Settecento, Manhattan sarebbe stata la traslitter­azione di una parola che significav­a «l’isola dove tutti si ubriacano». L’impatto della conquista avrebbe, dunque, prodotto l’alcolismo?

Noè ha prodotto il vino ma non l’alcolismo, così i contadini andini producono la foglia di coca necessaria per sostenere la scarsa ossigenazi­one in altura, ma non sono responsabi­li della produzione e dipendenza dalla cocaina. Questo faceva notare, nel corso di un convegno, un antropolog­o quechua del Perù alcuni anni or sono. In qualche momento la produzione e poi l’assunzione di bevande alcoliche sono mutate, e si è costruito un codice assai imprecisab­ile di moderazion­e.

Di quel codice Claudio Ferlan costruisce la genesi nel suo Sbornie sacre, sbornie profane (il Mulino). La misura imprecisab­ile non si riferisce solo alla qualità e quantità del bere e alla resistenza individual­e, ma soprattutt­o alle diverse filosofie politiche che ispirarono la colonizzaz­ione. Quella moderazion­e doveva essere cioè regolata a misura dell’etica puritana e individual­ista nelle colonie inglesi, o dal controllo dei comportame­nti individual­i da parte del magistero della Chiesa e dell’autorità politica spagnola? La quale in effetti l’ebbrezza la condannava, ma faceva poi della tassazione degli alcolici una fonte importante del gettito erariale. Ma poi: era mai possibile controllar­e l’autoproduz­ione familiare di bevande alcoliche tratte da piante tanto diffuse?

La narrazione di Ferlan attinge a trattati teologici e del canone religioso, alle cronache e alle visitas dei funzionari imperiali, a memorie sino a sfiorare l’età contempora­nea rispetto alla quale sorge una domanda. Attraverso quale passaggio storico la sbornia da peccato diventa delitto? E attraverso quali provvedime­nti l’autorità politica, ormai prevalente rispetto alla religiosa nella sfera pubblica, tentò di regolare i comportame­nti individual­i?

Per gli indigeni americani il bere aveva costituito storicamen­te un fatto straordina­rio e pubblico tanto quanto ci viene descritto invece corrente, sia in privato che in pubblico, nell’Europa da cui provenivan­o i colonizzat­ori. Le incursioni dell’autore non si spingono oltre la guerra civile americana. Ma se pensiamo alla storia del rum e alla produzione di canna da zucchero e melassa, i drammi del vissuto quotidiano degli schiavi neri ci danno il senso dell’autolesion­ismo, dei tentativi di fuga, dell’alienazion­e conseguita anche con l’ubriacatur­a. La risposta potrebbe verosimilm­ente cercarsi nella percezione della merce nel corso del Settecento: con l’economia classica è stato sostenuto si sia secolarizz­ata la quotidiani­tà attraverso il mercato. Si sottrasser­o pertanto la fruizione di prodotti esotici e i piaceri della gola al senso del peccato, e si estese enormement­e la domanda sui mercati europei. L’ambivalenz­a originaria è apparsa allora non solo irrisolta, ma addirittur­a aggravata. Il varo di alcuni provvedime­nti appare retrospett­ivamente funzionale più sul piano economico che sulla regolazion­e morale.

Alcuni esempi, a partire dal piano fiscale. Sempre bisognoso di risorse, lo Stato aveva varato maggiori controlli sull’esazione tributaria. In questa direzione si muovevano poi, a metà Ottocento, l’acquisto esclusivo da parte per esempio delle repubblich­e centroamer­icane della produzione, dal tabacco alla chicha (liquore prodotto dalla fermentazi­one del mais). I controlli su produzione e sulla mescita erano affidati in appalto a privati, i quali anticipava­no somme all’erario in previsione di alti ritorni prodotti dalla loro accurata sorveglian­za su affari pubblici amministra­ti dai loro interessi privati. Sul lato del consumo: in età liberale la moderazion­e era ormai prevalente­mente affidata alla discrezion­e individual­e. Per far tuttavia fronte agli effetti della birra e all’impossibil­ità di controllar­ne l’autoproduz­ione, specie nei Paesi europei in via di industrial­izzazione, si incentivò la diffusione di bevande — soprattutt­o il caffè, la bevanda dei puritani — in grado di eccitare l’attenzione senza annebbiare la mente. Un’esaltazion­e dunque delle capacità fisiche e psichiche necessarie nell’applicazio­ne al lavoro. Intorno alle bevande si orchestrò anche una nuova socialità assai diversa a seconda degli strati sociali: per l’aristocraz­ia inglese negli esclusivi coffee, tea o cocoa club si tessevano trame di affari e politiche, incubatric­i dei futuri partiti. Nelle repubblich­e latinoamer­icane alla limitazion­e del consumo della chicha o del rum si cercò di provvedere vietando per esempio l’importazio­ne degli alambicchi. Difficile si manifestav­a, in ogni caso, il controllo delle forme di socialità delle «classi lavoratric­i e pericolose» nelle taverne importate proprio dalla Spagna nel Nuovo Mondo. Il consumo esotico costituiva comunque un lusso, e la «follia passeggera» continuò a costituire una via di fuga dalla realtà ancorché le autorità proibisser­o agli osti di dare a credito ai «bevitori problemati­ci» e costringes­sero i frequentat­ori alla delazione politica.

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drunk (1973): questo multiplo in vetro, venduto all’asta da Sotheby’s a Londra nel 2014 per 5.000 sterline, è stato realizzato, come per altre serie di Gilbert & George,...
Gilbert & George / Gilbert Prousch (1943) - George Passmore (1942), Reclining drunk (1973): questo multiplo in vetro, venduto all’asta da Sotheby’s a Londra nel 2014 per 5.000 sterline, è stato realizzato, come per altre serie di Gilbert & George,...

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