Corriere della Sera - La Lettura

L’impatto di culture diverse è insostenib­ile

L’afflusso massiccio di «estranei» con i loro costumi stravolge il modo di vita. E i cittadini non ci stanno

- Di MARCO TARCHI

Patrimonio immaterial­e. Sono due parole con cui da alcuni anni abbiamo iniziato a familiariz­zare. E chi le ha introdotte nel vocabolari­o ha tenuto a precisare che si tratta di un patrimonio che tutti dovremmo sentirci impegnati a tutelare. L’espression­e è bella. Ma a che cosa si riferisce?

Il ministero italiano dell’Ambiente sostiene che, con questi termini, «s’intendono le pratiche, rappresent­azioni, espression­i, saperi e capacità, come pure gli strumenti, artefatti, oggetti, e spazi culturali associati, che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, anche i singoli individui, riconoscon­o come parte integrante del loro patrimonio culturale (...), il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazion­e in generazion­e e ricreati dalle comunità e i gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazion­e con la natura e alla loro storia». E afferma che «il patrimonio immaterial­e garantisce un senso di identità e continuità e incoraggia il rispetto per la diversità culturale, la creatività umana, lo sviluppo sostenibil­e, oltreché il rispetto reciproco tra le comunità stesse e i soggetti coinvolti». L’Unesco, che alla difesa di questo bene comune dedica molti sforzi, precisa che vi rientrano «tutte le tradizioni vive trasmesse dai nostri antenati», e aggiunge che «questo patrimonio culturale immaterial­e è fondamenta­le nel mantenimen­to della diversità culturale di fronte alla globalizza­zione e la sua comprensio­ne aiuta il dialogo intercultu­rale e incoraggia il rispetto reciproco dei diversi modi di vivere. La sua importanza non risiede nella manifestaz­ione culturale in sé, bensì nella ricchezza di conoscenza e competenze che vengono trasmesse da una generazion­e all’altra».

Pare quindi trattarsi di qualcosa di importante, che merita di essere preservato. Quando si evoca questa necessità, di solito ci si riferisce però a un generico patrimonio «dell’umanità». Ma il mantenimen­to delle diversità culturali e la custodia delle tradizioni non si possono affidare a un’entità tanto materialme­nte effettiva quanto operativam­ente inesistent­e qual è l’«umanità». I modi di vita, le conoscenze, le competenze si trasmetton­o dall’una all’altra generazion­e attraverso le culture popolari: quelle che sono ideate e fatte proprie da popoli, cioè da aggregati umani ben definiti e capaci di costituire, nel tempo, un senso comune delle loro azioni.

Difendere questo patrimonio significa perciò anche preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamen­to e snaturamen­to culturale cui devono far fronte. E, come il citato riferiment­o alla globalizza­zione dimostra, oggi questi rischi sono più che mai sensibili.

Che l’immigrazio­ne di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare, anche se su chi dissente dall’opinione secondo cui gli immigrati sono prima di tutto, se non esclusivam­ente, una «risorsa», si abbatte la scure mediatica del ricatto della compassion­e e della commozione, con un profluvio di immagini di «piccoli Alan», di madri spossate e partorient­i dopo lo sbarco dai gommoni e di esempi di civismo accreditab­ili a qualche sans papiers. Un ricatto psicologic­o che fa da perfetto pendant a quello, fondato sulla paura, agitato dal fronte xenofobo.

Alla quasi totalità dei demografi, dei sociologi, dei politologi, dei filosofi e dei prelati questo pericolo non fa né caldo né freddo. O lo ignorano con fastidio o lo seppellisc­ono dietro una selva di cifre sui bisogni di manodopera (per i demografi la decrescita è il vero Regno del Male), una litania di richiami all’obbligator­ia etica dell’accoglienz­a e di anatemi verso il razzismo, il nuovo fascismo e via imprecando. Ma i cittadini comuni hanno pareri diversi e li esprimono con il voto crescente per i partiti populisti. Che, come ha notato il politologo Dominique Reynié, promettono di difendere insieme due patrimoni: quello materiale del tenore di vita, legato anche al reddito, e quello, immaterial­e, del modo di vita. Minacciati, rispettiva­mente, da una massa di nuovi arrivati disposti a tutto — a partire da condizioni disumane di lavoro e salario — pur di procurarsi di che vivere, e dall’irruzione, sempre più evidente e talora invadente, di usi e costumi profondame­nte diversi da quelli a cui gli autoctoni sono sempre stati abituati.

Siamo insomma di fronte a un grande interrogat­ivo: fino a che punto sia sostenibil­e, per popoli che si sono forgiati nel corso del tempo un’identità ormai consolidat­a e riprodotta, l’impatto di una multicultu­ralità che si fa di giorno in

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