Corriere della Sera - La Lettura
L’impatto di culture diverse è insostenibile
L’afflusso massiccio di «estranei» con i loro costumi stravolge il modo di vita. E i cittadini non ci stanno
Patrimonio immateriale. Sono due parole con cui da alcuni anni abbiamo iniziato a familiarizzare. E chi le ha introdotte nel vocabolario ha tenuto a precisare che si tratta di un patrimonio che tutti dovremmo sentirci impegnati a tutelare. L’espressione è bella. Ma a che cosa si riferisce?
Il ministero italiano dell’Ambiente sostiene che, con questi termini, «s’intendono le pratiche, rappresentazioni, espressioni, saperi e capacità, come pure gli strumenti, artefatti, oggetti, e spazi culturali associati, che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, anche i singoli individui, riconoscono come parte integrante del loro patrimonio culturale (...), il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazione in generazione e ricreati dalle comunità e i gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia». E afferma che «il patrimonio immateriale garantisce un senso di identità e continuità e incoraggia il rispetto per la diversità culturale, la creatività umana, lo sviluppo sostenibile, oltreché il rispetto reciproco tra le comunità stesse e i soggetti coinvolti». L’Unesco, che alla difesa di questo bene comune dedica molti sforzi, precisa che vi rientrano «tutte le tradizioni vive trasmesse dai nostri antenati», e aggiunge che «questo patrimonio culturale immateriale è fondamentale nel mantenimento della diversità culturale di fronte alla globalizzazione e la sua comprensione aiuta il dialogo interculturale e incoraggia il rispetto reciproco dei diversi modi di vivere. La sua importanza non risiede nella manifestazione culturale in sé, bensì nella ricchezza di conoscenza e competenze che vengono trasmesse da una generazione all’altra».
Pare quindi trattarsi di qualcosa di importante, che merita di essere preservato. Quando si evoca questa necessità, di solito ci si riferisce però a un generico patrimonio «dell’umanità». Ma il mantenimento delle diversità culturali e la custodia delle tradizioni non si possono affidare a un’entità tanto materialmente effettiva quanto operativamente inesistente qual è l’«umanità». I modi di vita, le conoscenze, le competenze si trasmettono dall’una all’altra generazione attraverso le culture popolari: quelle che sono ideate e fatte proprie da popoli, cioè da aggregati umani ben definiti e capaci di costituire, nel tempo, un senso comune delle loro azioni.
Difendere questo patrimonio significa perciò anche preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale cui devono far fronte. E, come il citato riferimento alla globalizzazione dimostra, oggi questi rischi sono più che mai sensibili.
Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare, anche se su chi dissente dall’opinione secondo cui gli immigrati sono prima di tutto, se non esclusivamente, una «risorsa», si abbatte la scure mediatica del ricatto della compassione e della commozione, con un profluvio di immagini di «piccoli Alan», di madri spossate e partorienti dopo lo sbarco dai gommoni e di esempi di civismo accreditabili a qualche sans papiers. Un ricatto psicologico che fa da perfetto pendant a quello, fondato sulla paura, agitato dal fronte xenofobo.
Alla quasi totalità dei demografi, dei sociologi, dei politologi, dei filosofi e dei prelati questo pericolo non fa né caldo né freddo. O lo ignorano con fastidio o lo seppelliscono dietro una selva di cifre sui bisogni di manodopera (per i demografi la decrescita è il vero Regno del Male), una litania di richiami all’obbligatoria etica dell’accoglienza e di anatemi verso il razzismo, il nuovo fascismo e via imprecando. Ma i cittadini comuni hanno pareri diversi e li esprimono con il voto crescente per i partiti populisti. Che, come ha notato il politologo Dominique Reynié, promettono di difendere insieme due patrimoni: quello materiale del tenore di vita, legato anche al reddito, e quello, immateriale, del modo di vita. Minacciati, rispettivamente, da una massa di nuovi arrivati disposti a tutto — a partire da condizioni disumane di lavoro e salario — pur di procurarsi di che vivere, e dall’irruzione, sempre più evidente e talora invadente, di usi e costumi profondamente diversi da quelli a cui gli autoctoni sono sempre stati abituati.
Siamo insomma di fronte a un grande interrogativo: fino a che punto sia sostenibile, per popoli che si sono forgiati nel corso del tempo un’identità ormai consolidata e riprodotta, l’impatto di una multiculturalità che si fa di giorno in