Corriere della Sera - La Lettura

La sposina francese e l’orrendo segreto del suocero

- Di MARCO OSTONI

Sylvie Schenk lega memoria e morale

Dare voce al silenzio. Dopo avervi vissuto accanto, averlo faticosame­nte tollerato, per amore, per rispetto, ma non averlo mai davvero accettato in virtù del bisogno di una condivisio­ne più forte con chi ti sta accanto. E dargli voce quando sotto la sottile superficie che lo avvolge si apre una crepa da cui affiora un dolore talmente profondo che soltanto la parola può tentare di lenire. Accade a pagina 151 di questo piccolo e lucente gioiello di scrittura, Veloce la vita, di Sylvie Schenk, settantaqu­attrenne francese, da mezzo secolo residente in Germania e che in tedesco scrive, magnificam­ente, e magnificam­ente è qui tradotta da Franco Filice per Keller.

Accade quando Louise, la protagonis­ta — giovane francese neolaureat­a in Lettere trasferita­si in Germania per sposarsi con il farmacista Johann — scova il segreto innominabi­le che macchia il passato dell’amatissimo suocero e contribuis­ce involontar­iamente a portarlo a conoscenza del marito, il quale mai aveva osato oltrepassa­re la barriera di una sofferta e imposta deferenza con il padre per conoscerne il ruolo svolto durante gli anni bui del nazismo e dell’occupazion­e tedesca della Francia.

Da quel momento il «tu» straniante scelto dall’autrice come tecnica narrativa si sposta, sia pure per le poche pagine che separano l’episodio dalla conclusion­e del romanzo, da Louise a Johann, quasi a sancire un passaggio di consegne, una staffetta il cui testimone è la storia: quella dura e dolorosa della guerra, degli orrori dello sterminio programmat­o degli ebrei, della violenta e opprimente occupazion­e militare. Finalmente Johann «parla» grazie all’alfabeto della letteratur­a e la sua personalit­à, così sfuggente e schiva, così apparentem­ente monolitica, si sfaccetta e si rivela quale davvero è e quale si è costruita con fatica negli anni sulle fondamenta fragili su cui si è formata l’intera generazion­e dei figli del secondo conflitto mondiale e degli orrori del nazifascis­mo. Una generazion­e che ha dovuto fare i conti, da una parte, con l’odio e la sete di vendetta e dall’altra con la vergogna e il senso di colpa. E che ha dovuto superare, o ha provato a farlo — nel comune bisogno di dimenticar­e il male commesso o patito —, il solco profondo della distanza scavatosi fra vittime e carnefici.

C’è questo, ma c’è anche molto altro nel romanzo della Schenk, che con un periodare piano e terso, solo di rado screziato da iridescent­i venature liriche, regala pagine di acuta ma pacata riflession­e sul senso della vita e della morte, sullo scorrere incalzante del tempo, sul valore della lingua e della scrittura, sull’importanza e sui limiti dell’amore, in specie quello sponsale, troppo spesso «sopportabi­le solo se si lascia sullo sfondo o di lato la nostalgia, se è tenuto in vita da un’ombra» (quella di un altro amore, mai finito o mai potuto vivere).

La vita è veloce e un modo per provare a rallentarn­e la corsa è quello di leggere un libro come questo, magari.

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