Corriere della Sera - La Lettura
Prendi un sonetto e trattalo male
Luciano Caniato elabora e stravolge la forma canonica della tradizione
La storia del sonetto, dentro e oltre il Novecento, è colma di fortunosi ritrovamenti, di tormentate riscoperte. Non c’è solo Giovanni Raboni, ma una moltitudine di autori che hanno ritentato con diversi intenti la forma, che fu cara, a parte Giorgio Caproni, anche a Carlo Betocchi, a Franco Fortini, al Pasolini segreto, e fu sperimentata, su un versante più formalistico e ironico, pure da Andrea Zanzotto ed Edoardo Sanguineti.
Si direbbe che di tutto questo, e di tante altre ombre, si nutra il denso, monotematico canzoniere di Luciano Caniato, intitolato non per caso L’ombra della cosa (Il Ponte del Sale). Sono ombre, infatti, quelle che insegue la poesia di Caniato, nativo del Polesine e abitante a Conegliano: ombre inseguite in forma di sonetti, disossati e slogati, quasi dissolti eppure ancora pulsanti.
La scrittura di un poeta contemporaneo che si misuri con la forma-emblema della nostra tradizione è inevitabilmente un riscrivere, dunque un palinsesto: uno scrivere sopra segni precedenti, sopra una traccia che giace e che fa da limo alla scrittura nuova. Tanto più se il sonetto si organizza, come qui, in forma di canzoniere. Per allestirne uno, per sottrarsi al già detto, occorre negarsi continuamente al troppo ovvio, alla musica data, deviare e insieme ritrovare, almeno nel loro spirito, gli emblemi di una tradizione. Ecco perciò che i sonetti di Caniato hanno endecasillabi a volte eccedenti o mancanti di sillabe, hanno accenti sghembi e non canonici; ecco che mancano per lo più di rime e hanno una sintassi che sembra attraversare la forma quasi ignorando le sue strutture interne. Ed ecco il plurilinguismo, col latino di qualche sintagma che fa posto, in una sezioncina, al dialetto. Lo stesso istituto lirico per eccellenza, il dialogo con un «tu» assente («[...] questo tu / non vero che vaga nei miei versi»), si tende fino al massimo della sua energia, per poi rivelarsi soprattutto dialogo con le ombre, appunto, e discorso interiore, riflessione sullo scrivere.
Non c’è angolo di questo canzoniere composto di sonetti in cui non ci sia anche un meditare, da parte del poeta, sul proprio strumento: sui nodi, le strettoie, l’asfissia della forma, sul suo obbedire a un fantasma che diventa vero nell’atto della scrittura («Più stringo e meno afferro il tuo fuggirmi»), facendosi il fiato stesso, il flatus vocis della poesia. Non che non ci sia sofferenza («E quel tuo fiero albero negato / si è fatto gelo e cumulo di stecchi»), ma la storia amorosa che si sfarina, lasciando rifrazioni ingannevoli, cenere e caligine, diventa l’occasione per intrecciare un tessuto: «Sono stati uncini i tuoi silenzi/ e le parole ortiche inestricabili// cui ha messo mano la poesia che cuce/ e sana ciò che fugge [...]». E però non è, per tornare all’inizio, una tessitura felice, indolore. Strappi, evanescenze, sottrazioni punteggiano il testo.
La poesia, ragno che tesse la sua tela, non finisce di colmare le lacune del desiderio.