Corriere della Sera - La Lettura
Collezionisti di due mondi Il tesoro dei fratelli Agrati
Poche, fragili linee di ottone si innalzano verso il cielo ancorate a tre parole in equilibrio instabile, dolci e sofferte come un bacio rubato: Un folle amore. Se c’è un senso autentico e carico di invisibili emozioni nella mostra Arte come rivelazione. Dalla collezione Luigi e Peppino Agrati è proprio quello racchiuso nell’esile e potente scultura di Fausto Melotti che il visitatore vede all’inizio del percorso espositivo e che si manifesta come una dichiarazione d’amore per l’arte e la vita.
E davvero si tratta di una dichiarazione d’amore, quella dei fratelli Agrati che, da imprenditori illuminati e amanti dell’arte (e degli artisti) hanno dato vita, sin dal 1968, a una collezione di straordinaria qualità dove hanno unito, senza pregiudizi ideologici e con grande sensibilità, due universi culturali talvolta sideralmente lontani per linguaggi e contenuti: quello americano e quello italiano.
Una storia molto significativa, quella dei fratelli Agrati, che mette in luce una sensibilità eccezionale per la qualità dell a col l e z i one, unit a a una vocazi one mecenatesca non così scontata nel nostro Paese. Gli Agrati hanno fondato un’azienda negli anni Quaranta che faceva sistemi di fissaggio: bulloni, viti eccetera. Ben presto con lo spirito imprenditoriale brianzolo diventano leader nel mondo. Dopo la morte di Peppino, nel 1990, il testimone è stato raccolto dal fratello Luigi, scomparso nel 2016, che insieme alla moglie Mariuccia Agrati (ha 102 anni) ha deciso di donare questo patrimonio culturale a Intesa Sanpaolo: un patrimonio stimato oltre 300 milioni di euro. Ora, questa collezione è visibile alle Gallerie d’Italia/Piazza Scala di Milano, riletta e ordinata, quasi «cucita su misura» dallo sguardo attento e rigoroso di Luca Massimo Barbero.
Si tratta di lavori anche sorprendenti, a l c u n i d a v ve r o i n a s p e t t a t i c o me a d esempio quelli di Jean-Michel Basquiat (due dipinti del 1985-86), o di Robert Rauschenberg (un grande assemblaggio di metalli e targhe automobilistiche) e poi Cy Twombly, Andy Warhol, Christo che nella mostra ha una sezione iniziale molto importante. E, accanto ad essi, un gruppo tra i più prestigiosi artisti italiani: da Fausto Melotti (che di fatto apre la mostra) a Lucio Fontana, da Piero Manzoni a Enrico Castellani, da Alberto Burri a Mario Schifano, da Mario Merz a Domenico Gnoli. Una collezione, dunque, che intercetta un lungo periodo storico ma con lo spirito, proprio come il titolo della mostra sottende, di offrire una rivelazione. Il che significa una nuova, inattesa condivisione di opere private mai rese pubbliche, che interessano per questa ragione, non solo il grande pubblico appassionato d’arte, ma addirittura gli studiosi degli archivi.
I due illuminati industriali intercettavano insomma il senso dell’arte contemporanea «in tempo reale». La mostra ha proprio questo valore: mostrare l’idea di come un dialogo attivo tra collezionista e artista possa trasformarsi in un bene di grande valore culturale. E il flusso creativo del loro tempo (quello degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta) è proprio il cuore pulsante di questa mostra.
Certo, va ricordato che già nel 2002 Germano Celant aveva pubblicato per Skira un importante volume sulla collezione e correttamente Luca Massimo Barbero gli rende omaggio attraverso una serie di citazioni lungo il percorso, a partire dal titolo del suo saggio in catalogo, che è esattamente il titolo del volume curato dal «curatore-padre» dell’Arte Povera: Un folle amore, appunto.
La mostra mette involontariamente in evidenza come Milano sia stata in realtà animata da una grande vitalità già da molti anni. Oggi la Fondazione Prada, Pi- relli HangarBicocca, insieme alla Fondazione Marconi, la Fondazione Carriero e la stessa Intesa Sanpaolo, mettono in luce come solo il privato riesca oggi a sopperire all’incapacità del pubblico (se non in rare eccezioni con alcune mostre a Palazzo Reale, al Pac e in Triennale) di offrire un coagulo culturale significativo nell’arte contemporanea. Verrebbe dunque da dire che alcune lezioni di mecenatismo vengono da lontano e alcuni esempi sono proprio in mostra: un ampio spazio viene infatti dato a Christo, che rappresenta un caso emblematico.
Peppino Agrati inizia a interessarsi all’opera di Christo nel 1970, quando l’artista si trova a Milano per le celebrazioni del decimo anniversario del Nouveau Réalisme. Un evento, organizzato dal critico Pierre Restany, che divenne subito un momento epocale della storia dell’arte. In quell’occasione Christo doveva impacchettare due monumenti: quello dedicato a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo e quello di Leonardo in Piazza Scala. Fu uno scandalo. Per il primo, l’azione durò solo un giorno. Il Comune fece rimuovere tutto. La seconda installazione venne addirittura bruciata da un gruppo di neofascisti. Solo la voce di Buzzati dalle colonne del «Corriere» andò in difesa di Christo: «Piuttosto vien da chiedersi se il bulgaro Christo, con queste fantasiose opere di imballaggio, non sia riuscito a risvegliare finalmente nei milanesi una preoccupazione estetica per la loro città, finora inesistente».
La mostra comincia con un potente nucleo centrale dedicato a Melotti e si snoda attraverso una scrittura volutamente di contrapposizioni, di contrappunti visivi, di «inciampi», come ama definirli il curatore. Così se da una parte troviamo Christo, gli Agrati acquistano anche la nascente Arte Povera (un piccolo Mario Merz del 1968) o un Piero Gilardi. Nelle altre sale troviamo i lavori di Domenico Gnoli e Michelangelo Pistoletto, de- gli straordinari ricami di Boetti e poi ancora Schifano e una delle rose nere di Kounellis. Ma anche Pascali, Manzoni, Paolini, Burri, Klein e un importante e magnetico Concetto spaziale rosso di Fontana con sei tagli.
Ancora una volta, Luca Massimo Barbero sembra voler andare oltre le singolarità degli autori («Ho voluto squadernare le scuole»). Non solo: presenta anche i monocromi di Manzoni, Castellani, in dialogo con Robert Ryman, Carl Andre e il cielo stellato di Luciano Fabro. E per dichiarare la visione eclettica degli Agrati ecco nella sala speculare nove grandi Boetti a biro rossa vicini ad Agnetti, a Kosuth o a Bruce Nauman o Dan Flavin.
Certo, per vivere il proprio tempo bisogna collezionare il proprio tempo. Questa mostra forse rappresenta anche un silenzioso suggerimento ai collezionisti di oggi. «Il fatto di essere personali e non semplicemente aggiornati», sussurra Luca Massimo Barbero. La mostra presenta che l’amore per l’arte (come nella vita) non è compilatorio, ma ha le sue ricchezze, i suoi errori, i suoi affondi e non è una piccola enciclopedia del collezionista. D’altronde lo dichiara proprio Fausto Melotti con la sua opera Un folle amore: lievi e precari equilibri, nel poetico intrecciarsi di due linee nello spazio. Come ci ricorda l’artista: «Rappresenta l’amore e l’amore è semplice. Due stele che si abbracciano e niente di più».
Le Gallerie d’Italia di Milano espongono il risultato di una vocazione che ha portato nel patrimonio degli imprenditori brianzoli capolavori statunitensi e italiani. Ecco Andy Warhol, Twombly, Christo. E poi Merz, Burri & C.