Corriere della Sera - La Lettura
Macché Alleati: il jazz in Italia dagli anni Dieci
La musica «nera» e il fascismo abitava
Il jazz sa essere un’ottima cartina tornasole per osservare le vicende sociali e politiche di una nazione. Il Ventennio fascista dovette fare i conti con la sua crescente popolarità, dopo che era comparso timidamente in Italia nei secondi anni Dieci (la vulgata che lo vorrebbe «musica della libertà» importata dal vittorioso esercito americano si è ormai mostrata troppo semplicistica). Così, la storica Camilla Poesio ha compiuto con Tutto è ritmo, tutto è swing un’attenta esplorazione dell’accoglienza riservata dagli italiani a una musica tanto diversa da quella che conoscevano. Scoprendo chel’accoglienza è stata spesso entusiastica e che il regime, pur divenendo sempre più rigido, nel confrontarsi con quest’imbarazzante prodotto sonoro dovette escogitare modalità che gli conservassero un ampio consenso. La soluzione fu l’accettazione di «una musica italiana concepita e prodotta per il consumo popolare, urbano e di massa»: le canzoni di Gorni Kramer, Alberto Semprini, Pippo Barzizza, Natalino Otto, tutti fortemente influenzati dalla «plutocrazia» statunitense.
Il racconto di come negli anni Venti la moda del jazz (un jazz piuttosto annacquato) si diffuse in Italia somiglia moltissimo a ciò che avvenne nella sua stessa patria; anche là le radici «negroidi» e popolari, oltretutto intrecciate con la cultura ebraica, fecero sollevare più di un sopracciglio. Ma gli Stati Uniti, pur attraversando un periodo conservatore che portò all’isolazionismo, al proibizionismo moralistico, alle leggi contro immigrati e sindacati, erano ben lontani dalla deriva totalitaria del fascismo. Per questo l’accurata ricostruzione di un atteggiamento ondivago, fra modernità futurista e «strapaese», racconta molto del nostro passato.
Poesio affronta il suo argomento da vari punti di vista: la risposta popolare e quella degli intellettuali, le veline del regime e il pragmatismo dell’Eiar (la Rai di allora), il rapporto con gli emigrati in America e quelli con i gerarchi nazisti, l’intesa fra «i due grandi dispensatori di verità: la Chiesa e lo Stato fascista», alternando con competenza le vicende della politica — segnata dai giri di vite delle sanzioni del 1935, delle leggi razziali del 1938 e naturalmente dell’entrata in guerra — a quelle della vita di tutti i giorni: illuminante, in proposito, il capitolo sul turismo internazionale. L’autrice racconta di essersi avvicinata al suo argomento grazie alla passione per i balli americani: certo questo è un libro di storia serio ma lontano da ogni rigidità accademica.