Corriere della Sera - La Lettura
Pubblicità!!! Fine di un’emozione
Strano mese, il giugno del 1995. Nevicò in Emilia, addirittura mezzo metro sul monte Cusna; la gente tirò fuori gli sci. E mentre in Bosnia ancora si sparava, gli italiani, domenica 11, andarono a votare per dodici referendum proposti dal Partito Radicale. Riguardavano le questioni più svariate, alcune delle quali oggi sembra abbiano dato vita a un’eterogenesi dei fini. Il popolo, per esempio, votò sì alla privatizzazione della Rai; e no alle aperture fuori orario degli esercizi commerciali: oggi la Rai è più che mai territorio dei partiti e centri commerciali e supermercati sono aperti 24/7, secondo un neologismo allora sconosciuto.
Ma il referendum che ci interessa è un altro. Ed è quello che poneva il seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 8, comma 3, secondo periodo limitatamente alle parole “Per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. È consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell’opera supera di almeno venti minuti due o più at- ti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno” della legge 6 agosto 1990, n. 223 pubblicata in Gazzetta Ufficiale 9 agosto 1990, n. 185 S.O. recante il titolo “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”?».
Tradotto dal burocratese: vi va bene che i film in tv siano interrotti dagli spot pubblicitari? Insieme ad altri due, questo referendum fu vissuto come un attacco a Silvio Berlusconi e al suo sistema di potere. Berlusconi era «sceso in campo» l’anno prima, aveva vinto le elezioni insieme a Fini e a Bossi, che l’aveva mollato pochi mesi dopo. Al governo andò un «tecnico», Lamberto Dini, che durò molto di più del governo che lo precedette. Gestì anche la campagna referendaria, che si svolse sostanzialmente come una battaglia intorno al conflitto di interessi di Berlusconi (che, 23 anni dopo, è ancora lì uguale a prima). I no (cioè i pro-spot) vinsero col 55,7% contro il 44,3%. Sembrò una vittoria elettorale del partito Mediaset, ma non lo era. L’anno dopo Romano Prodi sfidò Berlusconi e lo battè. Oggi capiamo che quel voto non indicava tanto una scelta politica, quanto una culturale. L’11 giugno 1995 confermò una mutazione antro-
pologica non dissimile da quella, famosa, denunciata da Pasolini negli anni Settanta. Il referendum fu un passaggio che segnò il congedo degli italiani da un immaginario che li aveva accompagnati per decenni, un immaginario che li aveva resi famosi nel mondo.
Gli spot cominciarono a interrompere la trasmissione dei film (al di là del «naturale» intervallo tra primo e secondo tempo) all’inizio degli anni Ottanta, con l’avvento della tv commerciale. E subito la pratica si tirò dietro le ire nientedimeno che del Maestro. Fu Federico Fellini, nel 1984, a coniare il famoso slogan «Non si interrompe un’emozione», citatissimo anche nella campagna referendaria. Ecco: Fellini è una figura chiave per capire cosa successe in quel passaggio della storia culturale italiana. Almeno dai tempi di La dolce vita, il suo autore incarnava l’immagine dell’Italia. E possiamo dire che, con lui, tutto il cinema italiano, dal dopoguerra in poi, era stato il più rappresentativo a livello mondiale: dal neorealismo alla commedia, mettendoci in mezzo, oltre a Fellini, una serie di straordinari cineasti. Quell’immaginario (straccione e stracciato, poetico e insieme realistico, cinico e romantico) aveva retto a lungo, fino agli anni Settanta, sia in patria che all’estero. Poi, qualcosa era cambiato: e Fellini, per natura e sensibilità particolari, fu il sismografo che registrò le scosse che progressivamente andavano demolendolo. Il primo sintomo è il finale di Roma (1972), con le misteriose orde di motociclisti che, minacciosi, cavalcano le strade vuote della città come nuovi barbari. Poi ci fu Prova
d’orchestra (1979), metafora nemmeno tanto vaga del disordine che stava per sostituire il vecchio mondo. Il messaggio del film apparve allora, a una generazione come la mia, conservatore e qualunquista: ma era solo disperatamente nostalgico.
Gli anni Ottanta furono un momento rivelatore: Fellini cominciò a fare film che — ammettiamolo — non erano all’altezza dei precedenti. Il motivo è semplice: il Maestro cercava di raccontare il senso della nuova Italia che si stava venendo a creare, ma è come se i mezzi non sostenessero le intenzioni. Ginger e Fred (1985) o La vo
ce della luna (1990) sono oggettivamente film imperfetti: la sensibilità infantile e giocosa di Fellini si rivela completamente anacronistica rispetto ai nuovi tempi, comandati da un edonismo sfacciato che nulla ha a che fare con la simpatica, malinconica cialtroneria raccontata fino ad allora da quasi tutto il cinema italiano.
Non succede solo a Fellini. Quasi tutti gli autori dei film più importanti degli anni Settanta dieci anni dopo balbettano, cercando di trovare una chiave, un alfabeto per raccontare la mutazione: ma rimangono quasi sempre lontani dal bersaglio. Capita ad Antonioni; capita a Marco Ferreri, il cui ultimo film, Nitrato d’argento, uscito un anno dopo i referendum, si apre con l’immagine di un cinema in cui gli spettatori sono ormai ridotti a un pubblico di manichini. Capita a Bertolucci, la cui filmografia del periodo è simbolica: nel 1981 La trage
dia di un uomo ridicolo; nel 1984 un documentario sui funerali di Berlinguer; e poi l’emigrazione a Hollywood per L’ultimo imperatore (1987). Succede inoltre che proprio in quegli anni scompaia di fatto la commedia all’italiana, le cui maschere tradizionali (Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman…) non corrispondono più al nuovo Zeitgeist rappresentato da Troisi, Verdone, Grillo…
Per tornare a Fellini, c’è una scena di La voce della lu-
che rappresenta benissimo tutto questo. Verso la fine Roberto Benigni, dopo che i compaesani hanno organizzato una festa con annessa tavola rotonda televisiva in diretta (sic), si allontana per dialogare con la Luna, che gli risponde con voce garrula. È un campo/controcampo tra Benigni in primo piano e la luna in cielo, interrotto solo dall’inserto di due popolani che ballano allegri e che sembrano presi di peso da un film degli anni Sessanta. Benigni, a mo’ di commento finale, dice: «Che malinconia! Questo mio povero cuore non sa più cosa pensare…». Al che la Luna, in cui comincia ad apparire in sovraimpressione il volto di una donna, lo interrompe. «Oddio», dice con accento napoletano, «ma non mi stavi facendo scordare la cosa più importante?». Al che la Luna gargarizza, si schiarisce la voce e intona: «Pubblicitàaaaa….». L’intenzione è chiara, ma la messa in scena è lontanissima dalla poesia felliniana. La sequenza è, onestamente, imbarazzante. È come se il solo contatto con lo spirito dei tempi mandasse in acido l’ispirazione del Genio. Fellini è un uomo del passato che guarda sconsolato l’Italia in cui è arrivato a vivere, un’Italia che non assomiglia per nulla a quella che lui stesso aveva contribuito a creare: e se ne lascia semplicemente travolgere.
Federico Fellini morirà tre anni dopo aver girato questa scena e gli sarà risparmiato vedere il popolo autorizzare l’«interruzione di un’emozione» a norma di democrazia. Si potrebbe addirittura considerare il referendum del 1995 un plebiscito tra cinema e televisione, con la consegna (la resa?) a quest’ultima di una tradizione narrativa e artistica. Ma allora, presi dal fuoco della politica (fu in quell’occasione, per esempio, che si inaugurarono le norme della par condicio), ci si concentrò su una questione di potere, non di cultura. D’altra parte, non si può nemmeno imputare al popolo di aver scelto, un’altra volta, Barabba al posto di Gesù: in realtà il cinema, in quel momento, era il pilastro portante della televisione. E la gente era, molto semplicemente, ben felice di vedere i film gratis in cambio di qualche pausa commerciale, che si poteva mettere a frutto per una capatina alla toilette o in cucina. Forse era anche ipocrita dire che «non si poteva interrompere un’emozione»: in realtà, il linguaggio del cinema, tramite il montaggio, si basa proprio sulla interruzione e ricomposizione delle emozioni. Ma certo gli esiti di quel processo furono inevitabili. Iniziò allora uno spezzettamento della visione che oggi è portato a conseguenze, se non estreme, almeno radicali rispetto alle forme della narrazione. Soprattutto, iniziò il declino del cinema italiano come rappresentazione di un popolo. Io faccio parte di una generazione di registi a cui, in giro per il mondo, è stato spesso chiesto, negli anni Duemila: «Ma cosa è successo al vostro cinema?». E giù con i rimpianti per Anna Magnani, Fellini e via dicendo.
Al di là del talento individuale, c’è una considerazione oggettiva da portare a nostra scusante. Ogni cinema nazionale mette in scena un popolo ed è tanto più interessante quanto più viva è la società che lo esprime. A un certo punto, è l’Italia che ha cessato di essere quella cosa contraddittoria ma piena di vita che fu dal dopoguerra fino al 1980. Siamo diventati un popolo medio, più ricco, più moderno e forse più degno di sedersi nel consesso europeo. Il prezzo da pagare è stato la perdita dell’immaginario che accompagnava quell’epoca. © RIPRODUZIONE RISERVATA