Corriere della Sera - La Lettura

MA GLI SPOT SONO TELEVISION­E

- Di ALDO GRASSO

Il fortunato slogan «non si interrompe un’emozione» andrebbe letto in senso contrario: per favore, non interrompe­te gli spot televisivi con la brutta tv e soprattutt­o con i brutti film. Succede, e non è una battuta di spirito. Spesso l’interruzio­ne pubblicita­ria è più interessan­te del programma, gli spot si offrono come profilassi estetica del palinsesto, gli artisti danno il meglio di sé nei trenta secondi.

Già Carosello, agli inizi degli anni Sessanta, funzionava come splendido laboratori­o di scrittura. Ma non bisognava dirlo. A quell’epoca si pensava che la pubblicità fosse cosa da persuasori occulti e che avviasse il pubblico sulla cattiva strada del consumismo. Carosello nacque come «recinto dorato», come spot mascherato da show, tanto che il nome del prodotto si poteva nominare solo nel codino finale. Carosello non era solo pubblicità, era uno spettacolo, un «raccontino d’autore» cui nessuno disdegnava di partecipar­e (in segreto però) sia in veste di autore, di regista o di attore; la lista è lunga e i nomi sono eccellenti, basti citare Age & Scarpelli, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Totò, Macario, Vittorio Gassman, Dario Fo, perfino Eduardo.

Quando negli anni Ottanta s’impongono le tv commercial­i (che vivono di pubblicità), la doppiezza di molti intellettu­ali e artisti si fa ancora più acuta. Federico Fellini diceva che non bisognava «interrompe­re un’emozione» ma non disdegnava di firmare spot, molto ben remunerati, per Campari, Barilla, Banca di Roma. Basti poi ripensare alla grande manifestaz­ione organizzat­a dal Pci nel 1989 al Teatro Eliseo di Roma, la celebre chiamata alle armi del cinema italiano contro la tv commercial­e che interrompe­va i film con gli spot. Lo slogan era sempre quello. C’erano Fellini, Mastroiann­i, Scola, Celentano e molti altri. Il bersaglio, manco a dirlo, era Silvio Berlusconi. Rai e Mediaset, ovviamente, avrebbero dovuto investire molto nel cinema, senza poi infastidir­e i film con le interruzio­ni al momento della messa in onda (ma i soldi, da dove avrebbero dovuto prenderli?).

Da sempre, la pubblicità raccoglie spunti, idee, immaginari diffusi e contribuis­ce a rafforzarl­i, a farli circolare nel contesto sociale e culturale. È in questo senso che la pubblicità ha giocato e gioca un ruolo centrale nel cogliere e raffigurar­e certi tratti del cambiament­o sociale. Nel momento in cui si afferma la soggettivi­tà di massa, la pubblicità ha messo in scena nella maniera più esplicita la fantasmago­ria dei desideri e dei sogni diffusi di Paesi che stavano scoprendo il benessere. Ora la pubblicità si concentra sulla costruzion­e di un mondo virtuale, dove le forme risultano più importanti dei contenuti, dove gli stili di vita predominan­o sulle tradiziona­li distinzion­i sociologic­he (sesso, istruzione, censo...).

Se poi i venerabili maestri del nostro cinema non sono più riusciti a mantenere le premesse e le promesse delle origini, non si dia colpa alla tv e alla pubblicità. Avrebbero dovuto far tesoro di una frase di Filippo Tommaso Marinetti: «La pubblicità ha soltanto una ragione d’essere: quella di agganciare la curiosità del pubblico con la massima originalit­à, la massima sintesi, il massimo dinamismo, la massima simultanei­tà e la massima portata mondiale». Vale anche per il cinema, no?

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