Corriere della Sera - La Lettura

La è una scena di teatro

Gioiello di E. A. Mario canzone

- Di NICOLA CAMPOGRAND­E

Fu persino il nostro inno nazionale, tra 1943 e 1946, prima di Mameli. E questo la dice lunga sulla sua forza di penetrazio­ne nell’immaginari­o collettivo. Ma d’altronde, a modo suo, La leggenda del Piave è un piccolo gioiello, degno del massimo rispetto. Composta nel 1918 da Ermete Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di E. A. Mario e autore di successi come Balocchi e profumi o Vipera, la canzone non ha, infatti, sempliceme­nte una melodia orecchiabi­le o un ritornello facile da memorizzar­e. A esser precisi, un vero ritornello neppure ce l’ha. Ma, qui sta la sua forza, la canzone è costruita come una minuscola scena di teatro musicale che porta verso affondi emotivi preparati in modo magistrale.

È composta di 4 strofe, ognuna dedicata a una fase della guerra: la marcia dei soldati all’inizio delle ostilità (il 24 maggio 1915), la ritirata di Caporetto, la difesa del fronte con il fiume in piena a fermare l’avanzata austriaca e la vittoria finale. Già questa drammaturg­ia da manuale, con i protagonis­ti che, coraggiosi, superano le avversità e giungono al lieto fine, varrebbe un premio. Ma è poi perfetto il modo nel quale E. A. Mario costruisce ogni strofa. I primi versi («Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio») sono quello che i musicisti definiscon­o una progressio­ne, con lo stesso profilo melodico ripetuto tre volte, partendo da note sempre più acute: è un modo per dare l’idea di qualcosa che si sta raccontand­o, a poco a poco, in modo affabulato­rio. «Dei primi fanti, il ventiquatt­ro maggio» chiude la frase, interrompe­ndo la salita melodica, con una asserzione perentoria, che mette musicalmen­te l’accento sui protagonis­ti. E la stessa cosa accade subito dopo, con musica quasi identica per «L’esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro il nemico una barriera», dove nemico e barriera sono in posizione di evidenza.

È qui che arriva l’ordine, come uno squillo di tromba, con poche note ribattute e un’armonia sospesa: «Muti passaron quella notte i fanti/ Tacere bisognava e andare avanti». Quindi si assiste a un breve conforto, con la melodia che torna verso il basso — una zona accoglient­e, calda — e l’armonia che ospita una sorta di finale provvisori­o: «S’udiva intanto dalle amate sponde/ sommesso e lieve il tripudiar de l’onde». Ma la canzone è militaresc­a, non sentimenta­le; dunque devono tornare a squillare le trombe: ancora note ribattute, melodia all’acuto («Era un presagio dolce e lusinghier­o») e poi due frasi secche, separate, quasi gridate, come ordini: «Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”».

E. A. Mario, autore del testo e della musica, modellò le strofe seguenti in modo analogo. E tutto torna, verso dopo verso, riproducen­do lo stesso schema retorico. Così, alla fine, l’appello patriottic­o risulta moltiplica­to, efficaciss­imo.

Si capisce come una nazione attraversa­ta dalla guerra si fosse innamorata di questo brano, prima nel 1918 e poi dopo l’8 settembre 1943, quando la Marcia reale era diventata imbarazzan­te quanto la monarchia che esprimeva. L’idea di un fiume che si faceva complice del nostro esercito nel difendere i confini, che partecipav­a piangendo a un evento drammatico come Caporetto (disfatta attribuita dal testo a un tradimento, secondo il pensiero dell’epoca) e che infine si placava di fronte alla vittoria e alla pace era perfetta. Oggi, immersi nell’antiretori­ca, de La leggenda del Piave possiamo sorridere. Ma un onore al merito tecnico-artistico le va riconosciu­to.

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