Corriere della Sera - La Lettura
La è una scena di teatro
Gioiello di E. A. Mario canzone
Fu persino il nostro inno nazionale, tra 1943 e 1946, prima di Mameli. E questo la dice lunga sulla sua forza di penetrazione nell’immaginario collettivo. Ma d’altronde, a modo suo, La leggenda del Piave è un piccolo gioiello, degno del massimo rispetto. Composta nel 1918 da Ermete Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di E. A. Mario e autore di successi come Balocchi e profumi o Vipera, la canzone non ha, infatti, semplicemente una melodia orecchiabile o un ritornello facile da memorizzare. A esser precisi, un vero ritornello neppure ce l’ha. Ma, qui sta la sua forza, la canzone è costruita come una minuscola scena di teatro musicale che porta verso affondi emotivi preparati in modo magistrale.
È composta di 4 strofe, ognuna dedicata a una fase della guerra: la marcia dei soldati all’inizio delle ostilità (il 24 maggio 1915), la ritirata di Caporetto, la difesa del fronte con il fiume in piena a fermare l’avanzata austriaca e la vittoria finale. Già questa drammaturgia da manuale, con i protagonisti che, coraggiosi, superano le avversità e giungono al lieto fine, varrebbe un premio. Ma è poi perfetto il modo nel quale E. A. Mario costruisce ogni strofa. I primi versi («Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio») sono quello che i musicisti definiscono una progressione, con lo stesso profilo melodico ripetuto tre volte, partendo da note sempre più acute: è un modo per dare l’idea di qualcosa che si sta raccontando, a poco a poco, in modo affabulatorio. «Dei primi fanti, il ventiquattro maggio» chiude la frase, interrompendo la salita melodica, con una asserzione perentoria, che mette musicalmente l’accento sui protagonisti. E la stessa cosa accade subito dopo, con musica quasi identica per «L’esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro il nemico una barriera», dove nemico e barriera sono in posizione di evidenza.
È qui che arriva l’ordine, come uno squillo di tromba, con poche note ribattute e un’armonia sospesa: «Muti passaron quella notte i fanti/ Tacere bisognava e andare avanti». Quindi si assiste a un breve conforto, con la melodia che torna verso il basso — una zona accogliente, calda — e l’armonia che ospita una sorta di finale provvisorio: «S’udiva intanto dalle amate sponde/ sommesso e lieve il tripudiar de l’onde». Ma la canzone è militaresca, non sentimentale; dunque devono tornare a squillare le trombe: ancora note ribattute, melodia all’acuto («Era un presagio dolce e lusinghiero») e poi due frasi secche, separate, quasi gridate, come ordini: «Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”».
E. A. Mario, autore del testo e della musica, modellò le strofe seguenti in modo analogo. E tutto torna, verso dopo verso, riproducendo lo stesso schema retorico. Così, alla fine, l’appello patriottico risulta moltiplicato, efficacissimo.
Si capisce come una nazione attraversata dalla guerra si fosse innamorata di questo brano, prima nel 1918 e poi dopo l’8 settembre 1943, quando la Marcia reale era diventata imbarazzante quanto la monarchia che esprimeva. L’idea di un fiume che si faceva complice del nostro esercito nel difendere i confini, che partecipava piangendo a un evento drammatico come Caporetto (disfatta attribuita dal testo a un tradimento, secondo il pensiero dell’epoca) e che infine si placava di fronte alla vittoria e alla pace era perfetta. Oggi, immersi nell’antiretorica, de La leggenda del Piave possiamo sorridere. Ma un onore al merito tecnico-artistico le va riconosciuto.