Corriere della Sera - La Lettura

Bianco, l’equivoco che fondò l’Occidente

Miti In una stagione di accesi sovranismi e rivendicaz­ioni identitari­e, vale la pena riprendere il filo del ragionamen­to di Philippe Jockey sul «paradosso del Partenone»: il tempio che aveva stregato Freud ed esaltato Chateaubri­and era colorato. Come eran

- di MAURO BONAZZI

Finalmente arrivato davanti al Partenone, Sigmund Freud aveva avuto un mancamento: «Dunque tutto questo veramente esiste?». René de Chateaubri­and, invece, era stato sopraffatt­o dal piacere — un’emozione sempre più intensa che gli impediva addirittur­a di pensare — mentre l’Acropoli gli si manifestav­a in tutto il suo bianco splendore. Viaggiava «per incontrare i popoli», così aveva scritto, «e soprattutt­o i Greci, che erano morti». Sotto il cielo di Atene, di fronte a quei marmi candidi, aveva improvvisa­mente scoperto l’eternità. È il miracolo di cui avrebbe parlato Ernest Renan nel 1865, anche lui abbagliato dalla purezza del marmo pentelico («l’ideale cristalliz­zato del marmo pentelico») — qualcosa «che si è dato una volta soltanto, che mai si è visto e mai si rivedrà, ma il cui effetto durerà per sempre». Fidia, l’artista che aveva progettato quelle meraviglie, si sarebbe stupito di fronte a tutto questo entusiasmo per il bianco. Perché il Partenone era colorato, come aveva potuto verificare Louis Sébastien Fauvel, console di Francia ad Atene nel 1798: « Tout était

peint! », tutto è stato dipinto. Quella tra i Greci e i colori è una storia bizzarra, di cui hanno subìto le amare conseguenz­e generazion­i di studenti impegnati in traduzioni quasi impossibil­i. Uno dei termini per il bianco è árgos, che però indica anche i lampi e i piedi che si muovono veloci, mentre chlorós, verde (si pensi a clorofilla), è sì usato per la vegetazion­e, ma anche per descrivere la sabbia sulla battigia, o il colorito pallido di chi ha paura, nonché la resina e il miele.

Kýanos è usato per i capelli di Odisseo quando Atena lo fa bello: «scuri», verrebbe da tradurre, prima di scoprire che lo stesso aggettivo vale anche per i giacinti. Odisseo aveva i capelli blu? Disperato, qualche studioso ha concluso che i Greci vedevano le cose diversamen­te da noi. Improbabil­e, o meglio impossibil­e. I colori sono sempre quelli, e così pure noi. Ma i colori possono assumere significat­i e valori diversi nel corso del tempo, come ben mostra il caso del bianco, che per i Greci non aveva particolar­e importanza, anzi: di norma era associato al pallore delle donne costrette in casa. Nausicaa è «dalle bianche braccia», mentre Odisseo, dopo l’intervento di Atena, è

melanchroi­és — ha la pelle nera, letteralme­nte. Anche per questo le statue erano colorate. E così pure i templi e persino i leggendari fregi del Partenone, ora al British Museum: erano blu, rossi e brillavano per le scaglie dorate. Sono poi stati sistematic­amente sbiancati, non solo dall’opera del tempo ma anche dall’intervento di chi ha voluto riportarli (soprattutt­o nel XIX secolo) a un’inesistent­e condizione di purezza originaria. In un’epoca di accesi sovranismi e rivendicaz­ioni identitari­e, vale forse la pena tornare a riflettere su quello che lo storico Philippe Jockey ha chiamato, appena cinque anni fa, in un saggio mai tradotto in italiano, «il paradosso del Partenone»: il modello che sta alla base del «mito della Grecia bianca» non era bianco, perché il bianco, per i Greci, era il colore dell’incompiute­zza, se non addirittur­a del disordine.

Sono piccole storie, apparentem­ente marginali, ma molto istruttive, perché ci aiutano a capire qualcosa di noi che altrimenti ci sarebbe sfuggito. Quale sia la posta in gioco, del resto, è chiaro, come ha scoperto Sarah Bond, una studiosa americana, l’estate scorsa. Aveva scritto su «Forbes» delle statue colorate; è stata ricoperta di insulti, e addirittur­a minacciata di morte. Il bianco, il colore apparentem­ente più neutrale e discreto, è in realtà quello più dirompente. È il colore che definisce una civiltà, la nostra, differenzi­andola e separandol­a dagli altri.

All’inizio si era trattato di un banale equivoco. Durante i secoli della tarda antichità e poi nel Medioevo le statue e i monumenti greci, caduti progressiv­amente in rovina, avevano perso i loro colori. Si era così diffusa la convinzion­e che fossero sempre stati così, come si vede in Andrea Mantegna e in tanti altri pittori rinascimen­tali. In quei quadri le rovine antiche sono sempre bianche, così come bianche saranno le statue che si scolpirann­o seguendo quei venerati modelli. A qualcuno verrebbe in mente di colorare il David di Michelange­lo? Il prevalere del bianco significa il prevalere della forma (il disegno), e quindi dell’ordine: questa è la lezione degli antichi. Poi le cose presero un’altra piega, proprio mentre gli archeo- logi iniziavano a trovare le prime tracce di colore. Queste nuove scoperte non avevano infatti minimament­e impression­ato il più grande studioso dell’arte antica, Johann Joachim Winckelman­n (1717-1768), che impose definitiva­mente il canone bianco: «Un bel corpo sarà tanto più bello quanto più sarà bianco», scrisse. Solo che questa celebrazio­ne del bianco — della bellezza della forma e dell’ordine — si accompagna ormai a prese di posizione sempre più decise nei confronti delle altre civiltà, che questi vertici di ordine e compostezz­a non avevano saputo raggiunger­e.

Il mito dell’antichità bianca diventa così lo strumento che serve a isolare il mondo greco (e romano, perché ormai Grecia e Roma formano un tutt’uno) dalle altre civiltà del mondo mediterran­eo — il mondo levantino, pieno di colori, languido e sensuale, caotico, torbido... Ecco insomma che il bianco inizia a giocare un ruolo decisivo nella costruzion­e identitari­a di un Occidente sempre più esaltato nella sua presunta superiorit­à. Lette su questo sfondo le pagine del già citato Chateaubri­and acquistano un valore sintomatic­o. Al tempo del suo viaggio Atene era una città ottomana, meticcia, piena di minareti e chiese, brulicante di genti provenient­i da tutte le parti del Mediterran­eo: l’ascesa verso il Partenone bianco e silenzioso, il viaggio di liberazion­e da questo mondo colorato e turbolento, diventa un viaggio di iniziazion­e verso la riscoperta delle proprie radici più remote. E la situazione non cambia — tutt’altro! — quando si entra nel Novecento, con le appropriaz­ioni di nazisti e fascisti: dal film Olympia di Leni Riefenstah­l (statue greche, bianche, che si trasforman­o in atleti, bianchi, e corrono verso Berlino) allo stadio dei marmi di Mussolini o alle pagine web dei suprematis­ti di Identità Europa gli esempi si sprecano e raccontano sempre la stessa storia.

E non si tratta di loro soltanto: la Casa Bianca dei presidenti americani, che riprende palesement­e i propilei dell’Acropoli, ne è un’altra palese conferma. Il mito bianco della Grecia (e di Roma) costituisc­e una colonna portante della tradizione occidental­e, ed è meno innocuo di quello che può sembrare. Ma se tutto in Grecia era colorato, è evidente che l’opposizion­e sfuma, e così pure le gerarchie. Meglio seguire la provocazio­ne dei Bagni misteriosi di de Chirico, da poco restaurati alla Triennale di Milano: statue greche colorate, dapprima spiazzanti, ma poi affascinan­ti nella loro inattualit­à. La distinzion­e tra Occidente e Oriente, bianco contro colori, è fittizia, e non solo dal punto di vista cromatico, ovviamente. Come tutti i popoli, anche i Greci sono stati gelosi della loro identità e delle loro tradizioni, adottando anche politiche ostili nei confronti dell’Altro, si trattasse di immigrati o stranieri. Ma questo non ha impedito circolazio­ni, scambi, viaggi, che hanno progressiv­amente ampliato le loro conoscenze e prospettiv­e, contribuen­do allo sviluppo della loro civiltà. Come nel verso più bello di Seferis: «Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre».

La nostra storia è la storia di questi incroci, e dei tanti altri che ne sono seguiti. Dimenticar­sene, riducendol­a in schemi di opposizion­i binarie, non è solo sbagliato: è uno spreco d’intelligen­za e ricchezza.

La sfida è piuttosto ricomporre questa varietà colorata in un disegno armonico: per creare quello che i Greci chiamavano kósmos, uno spazio ordinato in cui le differenze non sono annullate, ma organizzat­e. Non è vero, come troppo spesso si pensa, che il passato sia qualcosa di stabile, che basta ricostruir­e così come è stato. La memoria, quella collettiva non meno di quella individual­e, è sempre selettiva, e muove le sue tessere in modo molto libero e spregiudic­ato. Ed è per questo che lo studio della storia è così importante: perché spiegandoc­i chi siamo stati, ci aiuta a capire chi vorremmo o potremmo essere.

Le immagini Sopra il titolo, a sinistra: il Partenone dopo i restauri del 2005 (foto Reuters/ Yiorgos Karahalis). Sopra il titolo, a destra dall’alto: il

Galata morente, che si trova ai Musei Capitolini di Roma ed è copia romana da un originale in bronzo, opera di Epigono, del 230-220 a.C.; e la statua di Ilisso, uno dei marmi del Partenone che si trovano al British Museum di Londra, durante la mostra del 2014 all’Hermitage di San Pietroburg­o (foto Afp/Olga Maltseva). Nella pagina accanto: una Kore del VI secolo a.C. (Reuters)

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