Corriere della Sera - La Lettura
Bartleby lo scrivano porta la croce e teme l’abbandono
L’illuminismo radicale induce Andrea Tarabbia a riflettere sui nostri calvari quotidiani in una prospettiva insieme agnostica ed evangelica
Dopo averci costretto a scrutare nell’abisso e averci spinto sull’orlo del disumano (con Il demone di Beslan, 2011, e Il giardino delle mosche, 2015), Andrea Tarabbia ci pone ora al cospetto del più assoluto e indicibile segno della sofferenza e dell’ingiustizia: lo stipes e il patibulum della croce. Ma discostandosi da una lunga tradizione di riscritture evangeliche (da Borges a Saramago, per restare ai più noti), ne Il peso del legno la vicenda evangelica non è rinarrata né integrata nei suoi passaggi più misteriosi, se non per quanto riguarda due vicende apparentemente minori, quelle di Simone di Cirene e del ladrone crocifisso con Cristo. Esse incorniciano il corpo centrale del libro, che più propriamente si presenta come meditazione, riflessione in forma narrativa sull’interrogativo fondante il cristianesimo.
Tarabbia svela fin dalle prime pagine la sua attitudine agnostica, l’incapacità di rispondere alla domanda «Credi?», e insieme la difficoltà ad accettare la malattia, la debolezza, il dolore. Il suo illuminismo radicale lo trattiene al di qua del credere, nei confini razionali del sapere: se la fede implica una rinuncia a capire, se la conoscenza uccide la fede, Tarabbia non può, non sa compiere quel saltus a cui la tradizione cristiana ci invita fin dalle sue origini. Ciò tuttavia non impedisce l’interrogarsi e il meditare intorno allo scandalo della croce, che diventa il vero centro narrativo di un libro che narrativo propriamente non è.
I Vangeli (in particolare i sinottici) sono come sottoposti a un esame di resistenza, la logica ferrea del razionalismo ne segnala i punti critici, le faglie e i cedimenti: le pagine dedicate a Giuda, strumento scelto da Dio per realizzare il supplizio e dunque per rendere possibile la redenzione, pongono il lettore di fronte a una vertigine del pensiero: se, infatti, tramite Giuda si compie la morte, e dunque la resurrezione di Cristo, «perché Gesù non lo salva, ma anzi lancia anatemi contro colui che è lo strumento della sua gloria?».
C’è poi un’altra questione che Il peso del legno tematizza con chiarezza voltairiana: la sospensione dell’incredulità necessaria per seguire Gesù nel cammino verso il Golgota. Lungo tutto il cammino della croce i sinottici mettono infatti in scena esclusivamente la natura umana del Cristo, obbligano a dimenticare il Cristo dei miracoli e a compiere — insieme a lui — quell’abbassamento (o chenosi) che è la chiave di volta dell’incarnazione e del messaggio cristiano: l’onnipotenza di Dio diventa piena proprio perché ammette la morte, perché accetta di fare esperienza diretta del dolore. In effetti, seguendo Schelling, Tarabbia rileva che «l’onnipotenza implica anche la possibilità della rinuncia all’onnipotenza». E così si giunge alla domanda centrale dell’inchiesta: «È sopportabile, la croce, da chi non è Dio?».
Se la trama di questo libro è il calvario, l’ordito è la vita di ciascuno di noi, le nostre piccole o grandi difficoltà a sostenere il peso della croce, il nostro rifiuto dell’idea stessa del dolore: la vicenda privatissima che Tarabbia condivide col lettore (la malattia del padre, l’inadeguatezza del figlio a farsene carico) non è dunque l’ennesimo esperimento di autofiction. È al contrario qualcosa di ben più radicale: lo specchio in cui guardare le vite di tutti e di ciascuno. Il figlio che, come un moderno Bartleby, di fronte all’improvviso malore del padre risponde «non posso venire» è la piccola variante individuale di un Padre che si nega al Figlio quando, nel momento della crocifissione, urla: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Che l’autofiction abbia poco a che vedere con questo libro è dopotutto confermato dalla continua ricerca, da parte dell’autore, di punti di vista altri: i teologi (Küng, Simone Weil, Quinzio), gli scrittori (Camus, Dostoevskij, Bulgakov o Canetti) ma anche gli artisti (Bellini e Grünewald su tutti) sono qui convocati per il loro valore testimoniale, perché illuminano la vicenda evangelica di una luce ora livida, ora pietosa che atterra o consola chi si pone all’ombra della croce.