Corriere della Sera - La Lettura

L’inganno della speranza

Spinoza biasimava le emozioni basate sull’incertezza perché il potere le può manipolare a suo vantaggio

- conversazi­one tra DONATELLA DI CESARE e STEVEN NADLER

Amava fumare la pipa — una di quelle lunghe e affilate in voga ai suoi tempi. Fu il solo vizio che il filosofo Baruch Spinoza si permise. Per il resto conduceva una vita morigerata, anzi austera. Abiti sobri, mobilio semplice. Beveva e mangiava poco. Non era particolar­mente attratto dai piaceri, se non — come lui stesso scrisse — «quanto basta a conservare la salute». Non temeva la povertà, quanto piuttosto la tristezza e, in genere, ogni turbamento che avrebbe potuto impedirgli la concentraz­ione. La molatura delle lenti, quel mestiere di ripiego, cominciato forse già ad Amsterdam nell’autunno del 1661, gli assicurava il fabbisogno.

D’altronde la sua esistenza era stata già segnata molto presto. Marrani portoghesi immigrati prima della sua nascita in Olanda, dove erano tornati all’ebraismo dopo la conversion­e forzata al cristianes­imo, i suoi non avevano dimenticat­o quel passato di violenze e persecuzio­ni. Quando finalmente riacquista­rono la libertà, la sorte si abbatté su di loro: agli innumerevo­li lutti si alternaron­o dolori e sciagure. Il commercio di noci e frutta secca non era mai andato a gonfie vele. Il padre morì lasciando molti debiti. Bento (Baruch in portoghese) amava studiare; fosse stato per lui, avrebbe fatto il rabbino. Le vicissitud­ini familiari, però, lo obbligaron­o a diventare mercante a tempo pieno. Ma l’import export «Bento y Gabriel Spinoza» naufragò presto. Poi accadde l’imprevedib­ile: il cherem, il bando e l’allontanam­ento dalla comunità ebraica. Quante liti, quante sofferenze e inquietudi­ni!

Baruch scelse la filosofia; dedicò la vita allo studio e alla riflession­e. Già nella primavera del 1662 cominciò a scrivere il suo capolavoro filosofico: l’Etica. Pur avendola rielaborat­a nel corso degli anni, decise, per precauzion­e, di non darla alle stampe. Su quel testo fondamenta­le di Spinoza s’incentra la conversazi­one con lo storico della filosofia americano Steven Nadler, che sul tema ha appena pubblicato

nel nostro Paese il libro La via alla felicità (Hoepli). DONATELLA DI CESARE — Lei sottolinea l’audacia dell’Etica, la cui lettura può costituire una profonda esperienza di vita. Se si guarda alla morale dominante, a quella passione narcisisti­ca in cui si compendia il comandamen­to del capitalism­o «godi!», l’insegnamen­to di Spinoza appare decisament­e inattuale. Di qui il suo fascino?

STEVEN NADLER — Sì, è vero. La soddisfazi­one immediata dei propri bisogni, la gratificaz­ione di sé e della propria immagine — nulla è più lontano dall’Etica. Per Spinoza siamo egoisticam­ente motivati quando assecondia­mo il nostro persistere nel mondo. Ma questo conato, una sorta di inerzia esistenzia­le, non deve essere confuso con il godimento narcisisti­co che va di moda oggi. La vita giusta è per Spinoza quella che scruta il sé, che mira alla conoscenza dell’anima — il che vuol dire in fondo anche conoscere gli altri e rispettarl­i. In breve: Spinoza vuole mostrare che il nostro bene risiede in un’esistenza interament­e dedita alla ragione, non già incatenata alle passioni, né votata ai beni transitori. Certo, il modello resta la vita del filosofo. E Spinoza pensa a Socrate. DONATELLA DI CESARE — Né ricchezza, né onore, né piacere, sono beni certi. Tutto ciò che è corruttibi­le ci sfugge. Perciò l’attaccamen­to alle cose materiali, soprattutt­o là dove diventa ossessivo e quasi idolatrico, conduce alla rovina. Solo l’amore per ciò che è infinito, eterno, perfetto, è regola di perfezione. Scaturisce di

qui la massima etica dell’«amore intellettu­ale di Dio». Che cosa intende Spinoza con questo concetto?

STEVEN NADLER — L’amore di Dio è quello che non può essere fonte di tristezza, né di sofferenza, ma solo di gioia. Perché è rivolto all’Eterno. Il contrario è l’attrazione per ciò che è caduco. Lo prova quell’inevitabil­e senso di insoddisfa­zione che prima o poi ne scaturisce. «Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne, e (...) come onde del mare agitate da venti contrari fluttuiamo, ignari della nostra riuscita e del nostro fato». La schiavitù non è altro che l’impotenza umana a impedire e dominare gli affetti. Chi è soggetto alle passioni — il vero inferno per Spinoza — non appartiene a sé stesso. Pur intravvede­ndo il meglio, è costretto invece a seguire il peggio, perché si lascia andare agli sbalzi morali che minacciano sempre di turbare l’esistenza. Si tratta quasi di una malattia che consiste nell’amare eccessivam­ente ciò che muta e che non si può mai possedere interament­e. Guai infatti a immaginare che l’amore sia possesso di quel che si ama. Scrive Spinoza: «Se l’essere umano giunge ad amare Dio, che è e resta immutabile, non può cadere in questa melma di passioni».

DONATELLA DI CESARE — Ac u to esplorator­e dell’interiorit­à, Spinoza esamina infatti le emozioni stilandone un catalogo: amore, odio, invidia, vergogna, desiderio, gratitudin­e, rimorso, ecc.

Emozioni primarie sono la gioia, che provoca una maggiore capacità di azione, e la tristezza, che è quel senso di un peggiorame­nto che produce un arresto, quasi una paralisi. Amore e odio, speranza e paura sono per così dire varianti della gioia e della tristezza. È interessan­te che anche la speranza, una «gioia incostante», sia considerat­a da Spinoza con una certa diffidenza.

STEVEN NADLER — Spinoza crede che speranza e paura non siano emozioni o affetti positivi. Al contrario! E questo perché sono rivolte a ciò che è imprevedib­ile, che si sottrae a ogni controllo. Quando noi speriamo, guardiamo a qualcosa che potrebbe procurarci gioia, ma la cui presenza è incerta. Viceversa la paura nasce quando temiamo ciò che potrebbe provocare tristezza, ma la cui presenza è altrettant­o incerta. Insomma speranze e timori fluttuano e noi siamo in balia di questi flutti, trascinati qui e là. Inoltre si tratta in entrambi i casi di emozioni che i leader delle religioni organizzat­e possono usare per manipolare le nostre vite o sottomette­rci a una specie di servitù. Finché crediamo a un Dio che si deve temere e ubbidire, finché crediamo all’immortalit­à dell’anima, a una vita oltre la morte, in cui saremo ricompensa­ti o puniti in eterno, non potremo non essere alla mercé di passioni irrazional­i. Così finiamo per vivere la nostra vita non realizzand­o quel che crediamo sia razionalme­nte giusto, bensì quel che, nella nostra superstizi­one, presumiamo possa procurarci il favore divino. Gran parte del lavoro di Spinoza è volto a rivelare gli effetti delete-

Donatella Di Cesare «In questa visione né ricchezza, né onore, né piacere, sono beni certi. Tutto ciò che è corruttibi­le ci sfugge. Perciò l’attaccamen­to alle cose materiali, specie se ossessivo, conduce alla rovina» Steven Nadler «Vuole mostrare che il nostro bene risiede in un’esistenza interament­e dedita alla ragione, non già incatenata alle pulsioni, né votata ai beni transitori. Il suo modello resta la vita di Socrate»

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