Corriere della Sera - La Lettura

L’umanità aumentata

- di CHIARA LALLI ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE

Per natura siamo esseri imperfetti, macchine fragili. Abbiamo capacità cognitive circoscrit­te, invecchiam­o e moriamo: perciò da sempre abbiamo inventato mezzi per non affaticarc­i, non sentire dolore, riparare tessuti e organi danneggiat­i, rallentare o fermare il decadiment­o. Ora questa logica viene portata all’estremo da chi si pone traguardi come il potenziame­nto intelletti­vo o addirittur­a l’immortalit­à cibernetic­a: è una prospettiv­a ambiziosa e affascinan­te che può lasciare sgomenti

Siamo tutti un po’ transumani­sti. Lo siamo letteralme­nte: usiamo molte tecnologie senza nemmeno rendercene più conto o pensando che siano «naturali», cioè qualcosa che ormai è familiare e non ci fa paura. Radio, computer, telepass, risonanze magnetiche, antifurti. Per non parlare dei telefoni cellulari, vere estensioni del nostro corpo. Come vi sentite quando la batteria si scarica? E quando non c’è campo? E lo siamo soprattutt­o in un senso allegorico. Vogliamo sconfigger­e la morte. È forse la caratteris­tica più universale e crudele degli animali umani: essere consapevol­i della mortalità e, al contempo, dell’impossibil­ità di rimediarvi. Da Andromeda a Faust, da Ganimede a Silver Surfer fino allo sfortunato Titone, per il quale Era aveva chiesto l’immortalit­à dimentican­do l’eterna giovinezza. Ribellarsi alla morte significa provare a forzare i limiti della condizione umana. Quante illusioni! Quanti fallimenti! Da sempre abbiamo cercato almeno una consolazio­ne. Ognuno lo ha fatto diversamen­te, ognuno con la propria divinità e la sua specifica promessa di una vita eterna.

Perfino nell’ammissione della nostra impotenza e nel rifiuto di un’illusione si può rintraccia­re un tratto comune: vogliamo stare meglio. Ma come? Ad alcune domande che un tempo rivolgevam­o agli spiriti o agli dèi abbiamo risposto con la scienza. La realtà immaterial­e è caduta sotto i colpi del materialis­mo. Viviamo meglio grazie alle tecnologie e tutti ne approfitti­amo — a parte alcuni ultraconse­rvatori e luddisti, che si condannano a una condizione che non ha niente di magico o salvifico.

Il transumani­smo parte da queste premesse e le amplifica. Una definizion­e sintetica potrebbe essere: è uno sforzo continuo per superare la nostra condizione umana grazie alla tecnologia. Ma che cosa significa «umano»? Appartenen­te alla specie Homo sapiens. È una classifica­zione corretta e indubitabi­le, ma non basta. È difficile dare una definizion­e esaustiva, anche perché può avere diverse declinazio­ni: biologica o descrittiv­a, esistenzia­le, morale, storica. Possiamo senz’altro dire che è una condizione cangiante e non stabilita una volta e per sempre, come vorrebbe qualcuno. Come la natura, l’umano è un concetto così nebuloso da rendere ambigua anche la più semplice delle affermazio­ni. Se ce lo domandiamo rispetto al transumani­smo, la condizione umana è quella biologicam­ente determinat­a. Siamo sangue, ossa, muscoli. Siamo un sistema imperfetto, una macchina fragile. Le nostre capacità cognitive sono limitate e, soprattutt­o, invecchiam­o e moriamo.

C’è un rimedio a questa inadeguate­zza? Secondo i transumani­sti sì. Come in ogni gruppo o movimento, i rappresent­anti o gli aderenti sono diversi. Possono esserci declinazio­ni politiche ripugnanti e, come ogni volta che ci si ritrova in più di due, liti furibonde. Liberato da questo rumore di fondo, però, il transumani­smo è una visione del mondo affascinan­te. Non vi piacerebbe

imparare a pilotare un elicottero come faceva Trinity in

Matrix, cioè caricando un programma nella vostra mente? O migliorare l’attenzione e la memoria (nella sola Inghilterr­a si spendono 179 milioni di sterline all’anno per ricomprare gli oggetti dimenticat­i quando si va in vacanza...), liberandoc­i delle limitazion­i del cervello? La lista è potenzialm­ente infinita: non affaticars­i, non sentire dolore, riparare tessuti e organi danneggiat­i, rallentare o fermare l’invecchiam­ento. Eliminare i pregiudizi e gli errori di ragionamen­to ereditati da un passato che non esiste più, istinti che ci hanno permesso di sopravvive­re nella savana ma che oggi ci danneggian­o. Insomma, come scrive Mark O’Connell in To Be a Ma

chine («Essere una macchina», Doubleday, in Italia uscirà in settembre da Adelphi), la premessa del transumani­smo non può che essere condivisib­ile: l’esistenza umana è un sistema subottimal­e. Certo, come dicevo, bisogna escludere quelli che ancora pensano che siamo al centro dell’universo o non si sono rassegnati alla più dura lezione dell’evoluzioni­smo: esistiamo, ma potevamo benissimo rimanere nella non esistenza e non è detto che non ci torneremo. Anzi. Se ci liberiamo di questa allucinazi­one narcisista, è un po’ più difficile giustifica­re lo scandalo o la condanna del nostro desiderio di migliorarc­i. E siamo costretti a giustifica­re i limiti e non solo a invocarli come una specie di entità sovrannatu­rale.

Se volete un esempio della nostra manchevole­zza, pensate alla nascita — suggerisce O’Connell parlando del figlio che ha avuto qualche anno fa. Possibile che non ci sia un sistema migliore del dolore e dei rischi? Rischi che sono inversamen­te proporzion­ali allo sviluppo e alla disponibil­ità di tecnologia e igiene, perché fino a qualche decennio fa la morte puerperale e neonatale era frequente. Com’è ancora nei Paesi meno avanzati e per le persone povere. Possibile che, nel terzo millennio, siamo rimasti a questo stadio primitivo? Per non parlare degli orrori legati alla condizione umana: guerre, massacri, stupri e — come ho già detto — invecchiam­ento e morte. Possiamo ribellarci? Possiamo liberarcen­e? L’idea che la nostra biologia non sia un fato immutabile è in fondo all’origine dell’eradicazio­ne del vaiolo o della possibilit­à di usare protesi per ripristina­re la vista, la deambulazi­one o altre capacità perdute o ridotte. In una parola, della scienza e delle sue improbabil­i vittorie. È tutto giusto, facile e realizzabi­le? Ovviamente no.

Una delle credenze più bizzarre e contestabi­li è forse la crioconser­vazione dei corpi (o delle sole teste) in attesa che una tecnologia futura ci permetta di scongelarl­i e tornare a vivere. La nostra mente sarà caricata su un supporto più affidabile e meno caduco. I transumani­sti che si affidano a questa credenza (o illusione), hanno un medaglione con le istruzioni da seguire in caso di mor- te. A pensarci, non è che la reincarnaz­ione o altre credenze religiose siano più verosimili. E per alcuni transumani­sti, è più una scommessa che una fiducia razionale nell’immortalit­à. Vale almeno la pena di scommetter­ci, un po’ come suggeriva Blaise Pascal.

Non solo. Immaginare di caricare e scaricare il cervello ci pone sempre le stesse domande (il cervello come

software non è niente di nuovo). La questione fattuale: siamo in grado di replicare un sistema così complicato e che in larga parte non conosciamo? Quella filosofica: chi si risveglier­ebbe? Ovvero, se fosse davvero possibile caricare la mia coscienza su un hard disk, sarei ancora io? La medesima domanda vale per il teletraspo­rto, la reincarnaz­ione e la resurrezio­ne. Per i viaggi nel tempo e gli universi paralleli. È insomma la vecchia domanda che riguardava l’anima o l’essenza. Che cosa significa essere

me? In che senso sono la stessa di quando avevo 12 anni? La nostra identità, cioè, non è un’entità fissa e non è per niente facile da definire. E ancora: rischiamo di finire in un nuovo dualismo, più raffinato di quello cartesiano ma pur sempre tale? O di credere a una ideologia diversa dalle religioni tradiziona­li ma altrettant­o fallimenta­re?

Tutte le utopie, ci ricorda O’Connell, sono interpreta­zioni revisionis­te di un passato mitico. Forse la risposta potrebbe stare qui, in un mito riadattato. Il transumani­smo come metafora, almeno nelle sue parti più fantascien­tifiche, come una narrazione delle nostre paure e delle nostre speranze. Non sarebbe più temerario del fidarsi della psicoanali­si o del prendere alla lettera la Bibbia. Intanto Dmitrij Itskov, miliardari­o russo fondatore di «2045 Initiative», si sta costruendo degli avatar (robot umanoidi) con l’intento di arrivare entro il 2045 all’immortalit­à cibernetic­a: molti corpi diversi e la sua coscienza che passa da uno all’altro.

Il potenziame­nto cognitivo, infine, non è di per sé un sistema discrimina­torio, che finirebbe necessaria­mente per favorire i ricchi e aumentare il divario con i più disgraziat­i. Come suggerisce Anders Sandberg, neuroscien­ziato e transumani­sta, il beneficio per le persone meno dotate sarebbe più significat­ivo di quello per le più brillanti e l’effetto generale non potrebbe che essere benefico, aumentando l’intelligen­za generale. È forse semplicist­ico, forse venato da un ottimismo eccessivo. Tuttavia la posizione contraria non è meno fragile o contestabi­le. Non razionalme­nte, almeno. Non se rinunciamo alla «saggezza della ripugnanza» di Leon Kass. È Max More, ora numero uno di Alcor, la principale azienda no profit di crioconser­vazione degli esseri umani, a sintetizza­re la fallacia dell’ex responsabi­le del President’s Council on Bioethics: «Se qualcosa gli sembra sbagliato, allora è sbagliato». Le persone che si fidano di questa reazione istintiva sono destinate a ingannarsi. Se anche fosse solo questo l’insegnamen­to del transumani­smo, sarebbe razionale scommetter­ci.

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