Corriere della Sera - La Lettura
L’umanità aumentata
Per natura siamo esseri imperfetti, macchine fragili. Abbiamo capacità cognitive circoscritte, invecchiamo e moriamo: perciò da sempre abbiamo inventato mezzi per non affaticarci, non sentire dolore, riparare tessuti e organi danneggiati, rallentare o fermare il decadimento. Ora questa logica viene portata all’estremo da chi si pone traguardi come il potenziamento intellettivo o addirittura l’immortalità cibernetica: è una prospettiva ambiziosa e affascinante che può lasciare sgomenti
Siamo tutti un po’ transumanisti. Lo siamo letteralmente: usiamo molte tecnologie senza nemmeno rendercene più conto o pensando che siano «naturali», cioè qualcosa che ormai è familiare e non ci fa paura. Radio, computer, telepass, risonanze magnetiche, antifurti. Per non parlare dei telefoni cellulari, vere estensioni del nostro corpo. Come vi sentite quando la batteria si scarica? E quando non c’è campo? E lo siamo soprattutto in un senso allegorico. Vogliamo sconfiggere la morte. È forse la caratteristica più universale e crudele degli animali umani: essere consapevoli della mortalità e, al contempo, dell’impossibilità di rimediarvi. Da Andromeda a Faust, da Ganimede a Silver Surfer fino allo sfortunato Titone, per il quale Era aveva chiesto l’immortalità dimenticando l’eterna giovinezza. Ribellarsi alla morte significa provare a forzare i limiti della condizione umana. Quante illusioni! Quanti fallimenti! Da sempre abbiamo cercato almeno una consolazione. Ognuno lo ha fatto diversamente, ognuno con la propria divinità e la sua specifica promessa di una vita eterna.
Perfino nell’ammissione della nostra impotenza e nel rifiuto di un’illusione si può rintracciare un tratto comune: vogliamo stare meglio. Ma come? Ad alcune domande che un tempo rivolgevamo agli spiriti o agli dèi abbiamo risposto con la scienza. La realtà immateriale è caduta sotto i colpi del materialismo. Viviamo meglio grazie alle tecnologie e tutti ne approfittiamo — a parte alcuni ultraconservatori e luddisti, che si condannano a una condizione che non ha niente di magico o salvifico.
Il transumanismo parte da queste premesse e le amplifica. Una definizione sintetica potrebbe essere: è uno sforzo continuo per superare la nostra condizione umana grazie alla tecnologia. Ma che cosa significa «umano»? Appartenente alla specie Homo sapiens. È una classificazione corretta e indubitabile, ma non basta. È difficile dare una definizione esaustiva, anche perché può avere diverse declinazioni: biologica o descrittiva, esistenziale, morale, storica. Possiamo senz’altro dire che è una condizione cangiante e non stabilita una volta e per sempre, come vorrebbe qualcuno. Come la natura, l’umano è un concetto così nebuloso da rendere ambigua anche la più semplice delle affermazioni. Se ce lo domandiamo rispetto al transumanismo, la condizione umana è quella biologicamente determinata. Siamo sangue, ossa, muscoli. Siamo un sistema imperfetto, una macchina fragile. Le nostre capacità cognitive sono limitate e, soprattutto, invecchiamo e moriamo.
C’è un rimedio a questa inadeguatezza? Secondo i transumanisti sì. Come in ogni gruppo o movimento, i rappresentanti o gli aderenti sono diversi. Possono esserci declinazioni politiche ripugnanti e, come ogni volta che ci si ritrova in più di due, liti furibonde. Liberato da questo rumore di fondo, però, il transumanismo è una visione del mondo affascinante. Non vi piacerebbe
imparare a pilotare un elicottero come faceva Trinity in
Matrix, cioè caricando un programma nella vostra mente? O migliorare l’attenzione e la memoria (nella sola Inghilterra si spendono 179 milioni di sterline all’anno per ricomprare gli oggetti dimenticati quando si va in vacanza...), liberandoci delle limitazioni del cervello? La lista è potenzialmente infinita: non affaticarsi, non sentire dolore, riparare tessuti e organi danneggiati, rallentare o fermare l’invecchiamento. Eliminare i pregiudizi e gli errori di ragionamento ereditati da un passato che non esiste più, istinti che ci hanno permesso di sopravvivere nella savana ma che oggi ci danneggiano. Insomma, come scrive Mark O’Connell in To Be a Ma
chine («Essere una macchina», Doubleday, in Italia uscirà in settembre da Adelphi), la premessa del transumanismo non può che essere condivisibile: l’esistenza umana è un sistema subottimale. Certo, come dicevo, bisogna escludere quelli che ancora pensano che siamo al centro dell’universo o non si sono rassegnati alla più dura lezione dell’evoluzionismo: esistiamo, ma potevamo benissimo rimanere nella non esistenza e non è detto che non ci torneremo. Anzi. Se ci liberiamo di questa allucinazione narcisista, è un po’ più difficile giustificare lo scandalo o la condanna del nostro desiderio di migliorarci. E siamo costretti a giustificare i limiti e non solo a invocarli come una specie di entità sovrannaturale.
Se volete un esempio della nostra manchevolezza, pensate alla nascita — suggerisce O’Connell parlando del figlio che ha avuto qualche anno fa. Possibile che non ci sia un sistema migliore del dolore e dei rischi? Rischi che sono inversamente proporzionali allo sviluppo e alla disponibilità di tecnologia e igiene, perché fino a qualche decennio fa la morte puerperale e neonatale era frequente. Com’è ancora nei Paesi meno avanzati e per le persone povere. Possibile che, nel terzo millennio, siamo rimasti a questo stadio primitivo? Per non parlare degli orrori legati alla condizione umana: guerre, massacri, stupri e — come ho già detto — invecchiamento e morte. Possiamo ribellarci? Possiamo liberarcene? L’idea che la nostra biologia non sia un fato immutabile è in fondo all’origine dell’eradicazione del vaiolo o della possibilità di usare protesi per ripristinare la vista, la deambulazione o altre capacità perdute o ridotte. In una parola, della scienza e delle sue improbabili vittorie. È tutto giusto, facile e realizzabile? Ovviamente no.
Una delle credenze più bizzarre e contestabili è forse la crioconservazione dei corpi (o delle sole teste) in attesa che una tecnologia futura ci permetta di scongelarli e tornare a vivere. La nostra mente sarà caricata su un supporto più affidabile e meno caduco. I transumanisti che si affidano a questa credenza (o illusione), hanno un medaglione con le istruzioni da seguire in caso di mor- te. A pensarci, non è che la reincarnazione o altre credenze religiose siano più verosimili. E per alcuni transumanisti, è più una scommessa che una fiducia razionale nell’immortalità. Vale almeno la pena di scommetterci, un po’ come suggeriva Blaise Pascal.
Non solo. Immaginare di caricare e scaricare il cervello ci pone sempre le stesse domande (il cervello come
software non è niente di nuovo). La questione fattuale: siamo in grado di replicare un sistema così complicato e che in larga parte non conosciamo? Quella filosofica: chi si risveglierebbe? Ovvero, se fosse davvero possibile caricare la mia coscienza su un hard disk, sarei ancora io? La medesima domanda vale per il teletrasporto, la reincarnazione e la resurrezione. Per i viaggi nel tempo e gli universi paralleli. È insomma la vecchia domanda che riguardava l’anima o l’essenza. Che cosa significa essere
me? In che senso sono la stessa di quando avevo 12 anni? La nostra identità, cioè, non è un’entità fissa e non è per niente facile da definire. E ancora: rischiamo di finire in un nuovo dualismo, più raffinato di quello cartesiano ma pur sempre tale? O di credere a una ideologia diversa dalle religioni tradizionali ma altrettanto fallimentare?
Tutte le utopie, ci ricorda O’Connell, sono interpretazioni revisioniste di un passato mitico. Forse la risposta potrebbe stare qui, in un mito riadattato. Il transumanismo come metafora, almeno nelle sue parti più fantascientifiche, come una narrazione delle nostre paure e delle nostre speranze. Non sarebbe più temerario del fidarsi della psicoanalisi o del prendere alla lettera la Bibbia. Intanto Dmitrij Itskov, miliardario russo fondatore di «2045 Initiative», si sta costruendo degli avatar (robot umanoidi) con l’intento di arrivare entro il 2045 all’immortalità cibernetica: molti corpi diversi e la sua coscienza che passa da uno all’altro.
Il potenziamento cognitivo, infine, non è di per sé un sistema discriminatorio, che finirebbe necessariamente per favorire i ricchi e aumentare il divario con i più disgraziati. Come suggerisce Anders Sandberg, neuroscienziato e transumanista, il beneficio per le persone meno dotate sarebbe più significativo di quello per le più brillanti e l’effetto generale non potrebbe che essere benefico, aumentando l’intelligenza generale. È forse semplicistico, forse venato da un ottimismo eccessivo. Tuttavia la posizione contraria non è meno fragile o contestabile. Non razionalmente, almeno. Non se rinunciamo alla «saggezza della ripugnanza» di Leon Kass. È Max More, ora numero uno di Alcor, la principale azienda no profit di crioconservazione degli esseri umani, a sintetizzare la fallacia dell’ex responsabile del President’s Council on Bioethics: «Se qualcosa gli sembra sbagliato, allora è sbagliato». Le persone che si fidano di questa reazione istintiva sono destinate a ingannarsi. Se anche fosse solo questo l’insegnamento del transumanismo, sarebbe razionale scommetterci.